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domenica 18 dicembre 2011

Un Nuovo Inizio

Seconda parte del racconto "Diario", presente su questo blog

Quel giorno Nino si alzò prima dell'alba. Non doveva accudire i cavalli, né controllare se questa volta i topi erano riusciti a penetrare nel magazzino delle granaglie. Quel giorno Nino doveva andare via. “Devi andare da tuo zio, nella tenuta di Santa Nicola” gli aveva detto suo padre “grazie a lui capirai”.
Si mise in cammino che il sole aveva appena fatto capolino da dietro le Madonie. La Città Alta stava svegliandosi e, con il sole alle spalle si allontanò di buon passo dalla sicurezza che questa rappresentava.
Ebbe la precisa sensazione di abbandonare una parte di sé e per un attimo, dal letto del fiume asciutto, voltandosi a guardare il suo passato, avvertì l'impulso di tornare.
Si fece forza, si voltò e riprese il cammino.
Santa Nicola distava circa due giri della Lunga del suo antico misuratore di tempo e ne raggiunse i confini che il sole non era ancora alto.
Inoltratosi nel vecchio borgo marinaro, lo stomaco gli si contrasse e si preparò all'ondata della visione. Sua sorella era lontana, probabilmente ancora stesa sul suo giaciglio, con i ciechi occhi rivolti verso l'alto. Anzi, la vide in quella sua posizione che ogni volta lo terrorizzava. Eppure, nonostante la distanza, riuscì a trasmettergli un brandello di futuro. Non durò che un battito di ciglia, ma gli parve di vivere una vita parallela.
Come sempre, seppe cosa fare.
Imbracciò la doppietta, che aveva ripulito e caricato la sera prima, si voltò di scatto facendo fuoco verso i due uomini che lo seguivano evidentemente armati di cattive intenzioni, oltre che di due affilatissime falci.
Iniziò a correre sguainando contemporaneamente la daga. Durante la corsa, proprio mentre superava il vecchio ufficio postale, balzò di lato giusto in tempo per schivare una freccia, che seguì con la coda dell'occhio fino al petto del ragazzino che gli puntava contro un fucile caricato con una fiocina. Questa gli sfiorò il braccio sinistro mentre ruotando su sé stesso infilzava allo stomaco l'arciere, che gli si era avvicinata brandendo un lungo coltello.
Si fermò: era completamente circondato dai folli abitanti di Santa Nicola. Aveva visto anche questo, ma non si preoccupò. Sapeva bene cosa stava per accadere.
Negli sguardi dei Santanicolesi Nino lesse la follia e la brama del suo sangue: a quali riti si abbandonava questa gente? Erano simili a quelli degli abitanti della Città Bassa?
Sentiva i rantoli dei morenti e il mormorio dei folli che gli si avvicinavano. Nino non abbandonò la posizione di guardia fino a quando non lo vide. Un istante dopo, una voce tonante, profonda e carica di una strana inflessione, ebbe il potere di fermare i Santanicolesi.
Anzi, proprio li “spense”.
«Ti aspettavo, zio» disse Nino.
«Lo so. Seguimi, non ti faranno più alcun male, adesso».
Nino si incamminò accanto al gigante dai capelli rossi, il Custode, come lo chiamava suo padre e insieme percorsero l'ultimo chilometro che li separava dalla vecchia casa.

Nino si era sistemato nella stanza che suo zio gli aveva assegnato, una mansarda dal pavimento e dal tetto in legno con un piccolo bagno. La stanza era pulita e perfettamente tenuta, riverniciata di fresco e odorosa di pulizia. Non ricordava di aver mai visto una stanza tanto pulita.
Erano arrivati da meno di un'ora e Nino vide lo zio salire nella sua stanza. Gli disse:
«Non muoverti da qui, oggi. Dovrò giustificare la tua presenza e ho un ospite da “accogliere”».
«D'accordo, zio» rispose Nino «ma...»
«Nessun “ma”, Nino. Ti verrà portato il pranzo, ma tu non devi assolutamente guardare chi te lo porterà. No, non sarò io a portartelo» continuò rispondendo alla tacita domanda del nipote, «Adesso devo andare, ho del lavoro da compiere».
Questi misteri incuriosirono il ragazzo oltre ogni misura, ma non osò disubbidire allo zio, quindi non si mosse dalla stanza e non guardò nemmeno la mano che poggiò il vassoio con il suo pranzo sul pavimento della stanza. Era una spigola cotta in forno sotto sale, con una ciotola di salmoriglio e mezzo litro di vino bianco freddo. In più c'era una nocepesca.
Gli era venuta una fame da lupi e si avventò sul pesce divorandolo in pochi minuti. Gli sembrò il pranzo più buono della sua vita.
Approfittò della forzata inattività per riflettere sul suo strano destino, domandandosi cosa gli avrebbe “fatto capire” lo zio Mimmo e perché mai suo padre, che solitamente era freddo come il ghiaccio, era così ansioso quando parlava del cognato.

«Cosa dovrebbe farmi capire questo scritto, zio?», chiese Nino perplesso.
«È un brano scritto da mio nonno, colui da cui hai preso il tuo nome, Antonino».
«Mmh... Ho atteso tanto a lungo per leggere un brano di narrativa? Continuo a non aver chiaro dove vuoi arrivare».
Nino aveva perso la pazienza. Suo zio gli aveva dato da leggere una cinquantina di pagine di un “romanzo”, come lo aveva chiamato, ma arrivato a un certo punto si era spazientito e aveva chiesto a Mimmo di potergli parlare. Non aveva intenzione di perdere ancora tempo a leggere quella prosa scadente e presuntuosa.
Anche se a scriverla era stato suo nonno.
«Il tuo bisnonno Nino raccontava storie. Con tua madre spesso sedevamo ai suoi piedi e ci leggeva favole e racconti che lui stesso aveva scritto. Ma sto parlando di molto, moltissimo tempo fa. Eravamo bambini, allora».
L'accenno a sua madre aveva catturato l'attenzione del ragazzo: non l'aveva mai conosciuta, poiché era morta dando alla luce lui e sua sorella. Mimmo continuò, e per qualche istante Nino ebbe l'impressione che la sua voce vacillasse, ma fu solo un istante.
«Quando era molto giovane, nel periodo in cui nacque tua nonna Elena, insieme ad altre nove persone, mio nonno Antonino scrisse un romanzo. Per l'occasione inventò un personaggio, tale Anton Valentijevic Sašarov, uno sciamano pazzo dedito al Culto degli Antichi», fece un cenno come per dire a Nino di tacere, che avrebbe avuto tutte le spiegazioni del caso di lì a poco, e continuò: «Nel romanzo questo sciamano aiutava una strana sacerdotessa ad evocare un Demone Maggiore, ma accadde qualcosa di strano. Chissà quali forze entrarono in gioco, chissà quali erano i piani della donna che aveva “creato” la sacerdotessa. Fatto sta che, nel momento in cui ne scrissero, tutti i protagonisti del romanzo presero Vita e divennero reali».
Nino era scioccato, non riusciva a credere alle sue orecchie: suo zio era impazzito del tutto, era andato fuori di testa, le Erinni avevano preso possesso della sua mente!
«Ma di cosa stai parlando? Come è possibile una cosa del genere? Non credere di potermi raccontare queste panzane solo perché ho diciassette anni! Capisco benissimo qual è la realtà e cos'è la finzione! A casa abbiamo centinaia di libri e...»
«Taci».
Quell'unica parola lo bloccò. Voleva continuare a parlare, ma gli mancò il fiato. Nella sua testa le parole si articolavano, ma non emetteva alcun suono. Una sensazione di soffocamento lo artigliò alla gola. Non riusciva a respirare e stava per farsi prendere dal panico.
«Respira», disse suo zio dopo un tempo che parve interminabile e Nino riprese a respirare affannosamente, come per recuperare il fiato perduto.
«Perdonami nipote, ma ne avevi bisogno». Il volto di Mimmo era serio e contrito.
«Perdonami tu» , disse Nino quando gli parve di poter parlare senza boccheggiare, «continua pure, zio».
Adesso iniziava a capire la paura che suo padre aveva di quell'uomo. Se poteva soffocare una persona soltanto proferendo una parola, cos'altro era in grado di fare?
Dopo qualche istante, Mimmo riprese a parlare:
«Ti sarai chiesto da cosa deriva il tuo potere di vedere brandelli di futuro, no? Ti sarai chiesto almeno una volta come fa tua sorella a mandarti visioni di ciò che accadrà proprio quando ti serve. Questo avviene perché stiamo vivendo un paradosso. Sašarov, lo sciamano creato dal nostro antenato, in gioventù viaggiò verso la Sicilia e mise incinta una giovane donna. Questa giovane donna era la bisnonna di mio nonno Antonino. Antonino stesso era un discendente della sua creatura, così come lo siamo noi».
«È assurdo» interloquì Nino con poca convinzione.
«Lo è, ma è anche la Verità. Durante la cerimonia di nozze, conosciuta come “Le Nozze d'Inverno”, celebrata da Sašarov e dalla sacerdotessa, il mondo fu cambiato e gli equilibri mutarono. Il mondo come lo conosciamo adesso è frutto di quella cerimonia. I miei poteri derivano da Sašarov, così come i vostri».
Nino era sconvolto. Come poteva essere? Il suo potere di “vedere” il futuro tramite gli occhi di sua sorella era un fatto assodato. Più volte, da bambini, gli aveva evitato rimproveri da suo padre. Da quando aveva ucciso il suo primo uomo, le visioni di ciò che sarebbe accaduto gli avevano salvato la vita diverse volte, durante gli scontri con i pazzi della Città Bassa.
Non poteva negare il suo potere.
«Cosa devo fare?», chiese Nino spaventato. Si era sentito pronto a ricevere delle spiegazioni, ma nulla gli aveva fatto presagire una cosa del genere. «Cosa significa tutto ciò? Non pensavo di vivere in un mondo tanto assurdo. Sapevo che doveva esserci qualcosa di strano, ma non lo immaginavo così».
Mimmo gli mise una mano sulla spalla.
«Devi allontanarti ancora. Il tuo Potere ha un solo punto debole, tua sorella. Sašarov aveva dei nemici potenti, nemici che adesso cercano la sua stirpe per eliminarla, poiché Egli è irraggiungibile. Tuttavia, se elimineranno i suoi discendenti acquisiranno abbastanza forza da essere in grado di colpirlo lì dove si trova. Questo significa che tua sorella è in pericolo. Devi andare lontano per evitare che i nostri nemici la colpiscano. Se le stai vicino, la metterai in pericolo. Se te ne allontani, sarai tu in pericolo, ma avrai il conforto delle visioni che ti invierà e potrai sfruttarle per difenderti. Purtroppo non so dirti se il Potere rimarrà intatto con la lontananza, ma devi rischiare».
«Tu non corri alcun rischio?», chiese Nino.
«No, finché rimango qui. In questo luogo non mi possono toccare, perché ne sono il Custode e i miei Poteri sono legati a questo luogo».
«Come andrò via? Impiegherò un'eternità di tempo ad allontanarmi a piedi e dovrò comunque passare dalla Città Alta, perché verso la Città Grande non si può andare».
«È vero. La Città Grande è preclusa a noi Esterni, ma non ho intenzione di farti andare via a piedi».
«E come?».
«Esistono delle Porte, Nino, delle Porte che conducono in luoghi lontani e che io sono in grado di aprire».

Era la prima volta che vedeva da vicino le tre donne. Sapeva che erano in casa, le aveva intraviste negli ultimi giorni, da quando cioè aveva avuto il permesso di muoversi liberamente per la tenuta.
Erano bellissime. Si somigliavano come delle gocce d'acqua, ma differivano per il colore dei loro capelli: una era mora, un'altra bionda e una rossa. Per il resto erano identiche.
Non parlavano, ma assistevano al rito dondolandosi lateralmente e mugugnando chissà quale strana litania.
Si trovavano nel piccolo giardino interno della casa, davanti a una grande roccia calcarea. Alcune piante crescevano dal terreno brullo, piante di una bellezza ancestrale e selvaggia.
Mimmo gli aveva spiegato che, una volta aperta, la Porta lo sarebbe rimasta per pochi secondi e non avrebbe dovuto esitare a entrarci, una volta che fosse stata libera.
«Cosa intendi per “libera”?», chiese Nino.
«Lo capirai», rispose lo zio.
Non capiva le parole della canzone che suo zio stava cantando, ma si rendeva conto che le  avrebbe ricordate per sempre.
«Cthulhu Ftangh! Ia! Shab ftor Nyarl! Ia! Ia! Yugh Shub Nigghttuf!»
Gli penetrarono nel cervello e lo stordirono.
Una noce vermiglia comparve improvvisamente sulla roccia e lentamente si avvolse a spirale su sé stessa, aumentando contemporaneamente di dimensioni. Prese a ruotare sempre più velocemente e in breve cambiò colore e si ingrandì fino a sfiorare la sommità della roccia, cinque metri più in alto.
Divenne viola, poi nera e, infine, assunse un colore azzurro sbiadito. Era come trovarsi davanti a uno specchio di acqua limpida, infatti prese a incresparsi come le onde del mare, mentre i suoi contorni si stabilizzavano e diventavano dorati.
La Porta era aperta e ne uscì un mostro orripilante: un'enorme bocca dotata di denti affilati come rasoi, venti occhi di fuoco sormontavano delle appendici vorticanti, corna possenti, un ventre che ribolliva distorcendosi e numerose braccia contorte dotate di artigli uncinati.
Accadde tutto molto velocemente.
Il mostro si avventò contro Mimmo, ma le donne, incredibilmente tramutatesi in mostri dotati di denti e artigli lo attaccarono ai fianchi e frontalmente.
La lotta fu cruenta.
Nino udì suo zio gridargli:
«IL SIGILLO È SPEZZATO! CORRI, NIPOTE, CORRI!»
Nino si lanciò in una corsa disperata, cercando di evitare i colpi del mostro. Si tuffò a testa in avanti dentro la porta dandosi del pazzo.
Atterrò sulla neve soffice rotolando e sguainando la spada. La doppietta nell'atterraggio gli colpì un ginocchio e una bretella dello zaino si ruppe, facendoglielo scivolare dal braccio sinistro.
Si girò più volte, ma non vide traccia né della porta, né tanto meno del mostro.
Era in una valle innevata, circondata da immense montagne. Un fiume ghiacciato “correva” a poche decine di passi da lui.
Mettiamoci in cammino”, pensò, e si incamminò seguendo il corso del fiume verso il fondovalle.

lunedì 28 novembre 2011

Sotto la Torre Normanna

Porgo un saluto caloroso a chiunque stia per leggere di questa mia strana avventura. Prego vorrete perdonarmi una doverosa premessa: non sono una persona impressionabile, né ho una fervida immaginazione. Ho cinquanta anni e di mestiere faccio il mercante di lana: il mio modo di essere mi porta a interessarmi alle cose pratiche piuttosto che alle elucubrazioni mentali. Di me dicono che sono pragmatico e calcolatore e che non riuscirei ad immaginare niente di diverso da ciò che ho davanti ai miei occhi. Non sono molto religioso, perché, come già detto, la mia mente si preoccupa d'altro. Diciamo che la domenica vado in chiesa a pregare per non far parlare di me, come del resto fanno quasi tutti i miei concittadini.
Mi chiamo Totò Guadamonte e quel fatidico giorno guidavo il mio carro verso la piana di Termini, poiché avevo da vendere certe coperte di lana alla fiera annuale che si teneva al porto. Non ero da solo, ma a difendermi c’erano i due fratelli Martorana a cavallo. Come al solito non portavo con me neanche un bastone, perché non ero uso a farlo, mentre i due Martorana avevano un fucile ciascuno e Peppe, il più grande, aveva anche un revolver.
Faceva caldo e non soffiava nemmeno un alito di vento. Avevamo superato Altavilla Milicia da circa dieci minuti ed era arrivato mezzogiorno: ai fratelli venne fame e ci fermammo a pranzare sotto un noce, al fresco. I Martorana mangiarono pane e formaggio, mentre io con me avevo del pane, delle cipolle e un paio di mele. Bevemmo un litro di vino bianco che avevo nel pozzetto del ghiaccio e riposammo per circa mezz’ora, prima di ripartire, verso la una.
I due Martorana fecero mangiare ai cavalli un po’ frumento, invece io non diedi nulla al bue che tirava il carro e nemmeno lo slegai: nonostante fossi partito presto la mattina eravamo ancora lontani e il carro pieno ci faceva andare fin troppo piano.
Circa quindici minuti dopo essere ripartiti, arrivammo su un colle dal quale di intravedeva la Torre Normanna a circa un chilometro a volo d'uccello. Non l’avevo mai vista così da vicino e neanche i due Martorana vi si erano avvicinati tanto. Tuttavia, conoscevano l’esistenza di una stradina che vi passava sotto lato monte e sapevano che era disabitata da secoli.
L’antica strada che stavamo percorrendo era piena di alberi e cespugli che rendevano difficile il viaggio, dunque procedevamo a rilento.
Poco prima delle due del pomeriggio, arrivammo sotto la torre e ci trovammo davanti una sorpresa: un uomo di circa quaranta anni, rosso di capelli e con una lunga barba fluente, alto più di un metro e novanta e dal torace ampio come quello di un cavallo, era fermo in mezzo alla strada sotto la torre appoggiato a una mazza di legno lunga almeno un metro e cinquanta.
“Salute a voi” disse.
“Buongiorno a lei” risposi. I Martorana lo guardarono sottecchi e non salutarono. L’uomo li fissò per un istante in malo modo, ma non disse loro nulla. Spostando lo sguardo su di me, disse:
“Chiunque passi da qui, deve pagare un pedaggio”. Il suo volto tranquillo emanava una strana ilarità.
“Non sapevo niente del pedaggio! Non ho soldi con me” risposi d'istinto.
L’uomo, senza mutare espressione, mi guardò, poi spostò lo sguardo sui due fratelli, prima su Sasà, il più piccolo, poi Peppe. I due non erano per niente tranquilli e avvertivo chiaramente il nervosismo dei loro cavalli. L’uomo disse:
“In pagamento mi basta uno dei vostri cavalli”.
“Cosa?” disse Sasà indispettito “Sei pazzo, vecchio? Non ci passa neanche per la minchia di darti un cavallo!” continuò, e armò il cane del fucile.
Io diventavo sempre più nervoso, mentre Peppe, dando man forte al fratello, disse:
“Proprio così. Spiegaci perché siamo noi che dobbiamo pagare il pedaggio? Noi siamo pagati per accompagnare il carro del nostro amico, qui” e puntò la lupara nella mia direzione. Io intuii che non era male intenzionato nei miei confronti e, per calmare gli animi, dissi rivolgendomi all’uomo:
“Mi ascolti! I miei amici hanno ragione! Perché dovrebbero pagare loro per le merci che porto io? Se proprio vuole un pagamento, prenda qualcosa dal mio carro!”
Guardandomi con un’espressione divertita, come non fosse uso a sentire parlare così tanto, mi rispose:
“Non mi servono le tue coperte. Io sono il Custode del Confine e sono io a stabilire cosa si debba pagare per passare al di là”. Osservò in tralice i Martorana: “Oggi ho deciso che voglio i due cavalli in pagamento e non uno soltanto” concluse.
“Cosa!?” dissi, chiedendomi come facesse a sapere che avevo delle coperte sul carro, ma non feci in tempo a dire altro, perché l’urlo di Sasà coprì la mia voce:
“Tu sei uscito pazzo!” disse mentre alzava il fucile pronto a sparare.
Non fece in tempo.
Muovendosi ad una velocità impressionante, l’uomo saltò alla sinistra di Sasà colpendolo alla nuca col grosso bastone. Riparato dal corpo di Sasà che cadeva da cavallo, gli prese il fucile dalle mani e sparò a Peppe colpendolo alla testa, mentre questo stava ancora girandosi per cercare di seguirne il movimento.
Rimasi di stucco! Nessuno poteva muoversi a quella velocità! Ma con chi avevamo a che fare?

“Li hai uccisi! Li hai uccisi come dei cani!” dissi non appena realizzai cosa era successo.
“Adesso ho due cavalli, due fucili e un revolver. Se mi avessero ascoltato, quei due, a quest’ora sarebbero ancora tra i vivi” mi rispose l’uomo. Continuò:
“Il mio nome è Mimmo. Seguimi” si voltò e cominciò a ridiscendere dal promontorio sul quale ci trovavamo, dirigendosi verso est.
Lo spettacolo che mi si parò davanti mi lasciò a bocca aperta. Un grande golfo si apriva sotto i miei occhi, con tanti piccoli promontori che separavano altrettante valli. Piccole spiagge di sabbia si intervallavano a alte scogliere e sullo sfondo, in lontananza, Mimmo mi indicò la linea del castello di Termini, che riposava sotto il Monte San Calogero, il primo di una serie di montagne che si innalzavano maestose e andavano a posarsi dolcemente sul mare.
Mimmo conduceva al passo i cavalli con i cadaveri dei Martorana coricati sopra e io, accorgendomi che non riuscivo più a controllare le mie reazioni, lo seguii conducendo il carro appresso a lui.
Ero terrorizzato. Avevo un terribile presentimento, ma non riuscivo a capacitarmi. Mentre facevamo strada, feci alcune domande a Mimmo:
“Mi tolga una curiosità. Perché voleva proprio i cavalli? E perché ha ucciso i miei amici? Non ce n’era alcun bisogno! Se proprio voleva un cavallo, avrei potuto portarne uno io sulla via del ritorno da Termini!”
Mimmo mi rispose senza neanche girarsi:
“Non saresti mai arrivato a Termini con quei due a farti da scorta. Superata questa zona, c'è Santa Nicola della Tonnara e, se foste stati particolarmente fortunati, vi avrebbero rubato cavalli, bue e coperte. Magari ti lasciavano il carro. Avreste fatto meglio a prendere la strada dei monti, salendo fino a Sant'Onofrio per poi scendere dal fiume San Leonardo.
“Quelle zone non le conosco affatto e non le conoscevano neanche i miei poveri amici”.
“E sareste voluti arrivare a Termini?”.
“Proprio così. Ma, mi dica: come faceva a sapere che trasporto delle coperte? E perché non ha ucciso anche me?”
“Tu mi servi per qualcosa di più importante. Delle tue coperte ho sentito l'odore. Ecco siamo arrivati”.
La discesa era finita e ci trovavamo davanti una casa che dava sul mare.
La casa s'affacciava sulla strada da un lato e sul mare dall'altro. Era circondata da mura bianche ricoperte da vite americana rampicante. Fiori ovunque. Alberi da frutto e non, tappezzavano il terreno attorno alla casa.
Tre donne uscirono dalla porta d'ingresso e mi guardarono simpaticamente. Mimmo disse loro di cominciare a preparare la cena. Mi condusse sotto una tettoia, mi diede una poltrona per sedermi e mi offrì del tabacco.
Caricata la mia pipa, gli chiesi:
“Mimmo, mi tolga una curiosità: per quanto ne so io, non ci sono confini tra Palermo e Termini. A che confine alludeva quando ha detto di essere il guardiano?”
“Come? Non l'hai ancora capito? Ovvio che parlavo del confine della mia proprietà. Qui non si avvicinano i poliziotti, né i soldati, perché qui comando io!”
L'arroganza di quelle parole mi colpì come un maglio e mi sentii troppo intimorito per proseguire la conversazione. Del resto, neanche Mimmo disse più nulla e passammo una mezz'ora in silenzio, prima che le donne ci chiamassero per andare a tavola.
Mangiammo pasta col sugo e le sarde, pesce alla griglia e sarde a beccafico, il tutto innaffiato da un bianco dal gusto raffinato. Per tutta la durata del pasto, le uniche voci che si sentirono furono quelle delle donne. Mimmo mi osservava portare ogni singolo boccone alle labbra e col suo sguardo m'inquietava.
Finito di mangiare, Mimmo mi prese a sé e un triste presentimento si fece strada nella mia mente.
“Vieni con me, Totò, è giunta l'ora”
“L'ora per cosa?” fu la mia istintiva domanda.
“L'ora del sacrificio!”
Mi prese l'angoscia, sapevo che Mimmo era infinitamente più veloce e più forte di me e non tentai nemmeno di fuggire: del resto, circondato da mura, dove speravo di andare?
Mi condusse su uno scoglio al quale si accedeva con una stretta passerella di legno. Mi legò a degli anelli fissi per terra. Mentre lo faceva, mi spiegava il motivo di tutto ciò:
“In questo tratto di terra sono tornati gli antichi dei. Qui non hanno potere né Geova, né Allah. Non ti salverà Gesù, né lo spirito del Buddha consolerà la tua anima. Qui comanda il Dio del mare. Ti sacrifico a lui perché continui a vegliare sulla nostra terra”.
Ero come instupidito, non mi muovevo, non facevo domande. Mimmo andò via e io attesi.
Un ribollire di onde lontano. Il mare, da calmo che era, iniziò ad agitarsi, le onde si fecero alte e iniziarono a frangersi sullo scoglio, riempiendomi di schizzi.
Inebetito fissavo il mare che, ad un trattò, sembrò ritirarsi. Un'onda enorme, come mai ne avevo viste nella mia seppur breve vita, si fece strada. Mi colpì in pieno un minuto dopo e mi trattennero dall'affogare solo le catene che mi legavano i polsi. In compenso fui sballottato avanti e indietro e il mare mi lasciò fradicio e bagnato proprio mentre l'ultimo chiarore del giorno lasciava il cielo.
Osservai sgomento la figura che mi si avvicinò dal mare. Non la vidi fino a che non fu a pochi metri da me: un essere indefinito, una mostruosità che non avevo mai immaginato neanche nei miei sogni peggiori. L'orrore mi travolse mentre il mostro allungava la mano per ghermirmi.
Urlai al contatto con le dita fredde e umide, ancora più fredde delle onde del mare.

Mi svegliai di soprassalto.
Mi ero appisolato appoggiato al noce dove avevamo pranzato. I fratelli Martorana preparavano i cavalli per ripartire. Peppe mi guardò e sorridendo mi disse:
“Totò, non ti volli svegliare prima, dormivi così bene! Però ora di andare è che si fece tardi”.
Mi alzai, ci rimettemmo in cammino. Mi sentivo a disagio: avevo sognato tutto? Vedemmo la torre, percorrendo il chilometro che ci separava da essa in silenzio. Giunti alla base della torre, un uomo, rosso di capelli con un grosso bastone in mano, ci fece segno di fermarci e disse, sorridendomi in maniera preoccupante:
“Buongiorno a voi, viaggiatori: per passare da qui, dovete pagare un pedaggio!”

mercoledì 3 novembre 2010

Lo Spadaccino di Zyz - Terza Parte

La Madre Terra ci parla. Attraverso le tracce possiamo leggere ciò che è accaduto e da molti segnali possiamo prevedere ciò che accadrà.
Lo stesso accade con gli uomini. Non lasciate che i vostri avversari leggano nei vostri occhi dove li colpirete, ma leggete nei loro dove vi attaccheranno.
Prima Lezione dello spadaccino

Lo Spadaccino di Zyz – Terza Parte

Oggi
Sanguinava da numerose ferite superficiali, con il ginocchio a terra, e con le due spade che non avevano ancora sfiorato il corpo dell'avversario. Una volta sola era riuscito a strapparne l'ampia veste rosso rubino, fra le le cui pieghe svolazzanti adesso s'intravedeva un lembo di pelle rosea.
Neeno non riusciva a capacitarsi di una simile situazione, non riusciva a fornirsi alcun indizio di come fosse potuto accadere. Di come stesse accadendo proprio a lui.
Non riusciva a sganciarsi dal corpo, era lento e goffo: i suoi attacchi prevedibili, le sue parate sempre in ritardo.
Iniziava a pensare che quell'uomo gli stesse facendo qualcosa di oscuro.
Il suo maestro, il Mago Zoras, aveva cercato di prepararlo a qualcosa una del genere, ma adesso non riusciva a ricordarne la parole. Anche Xa'yum lo aveva avvisato, ma non era riuscito a spiegarsi a dovere.
Neeno tentò nuovamente di intercettare lo sguardo del suo avversario e ancora una volta riuscì a scorgere i suoi occhi, sempre fissi come quelli di un cieco: guardavano un punto imprecisato alle sue spalle e non si lasciavano mai decifrare.
Si rialzò, cercando di muoversi il più velocemente possibile, ma ancora una volta l'Inquisitore danzò lontano dal suo acciaio con un movimento fluido e composto. Per un attimo fu sfiorato dall'idea di una scuola dietro quella schivata, ma non capì quale.
La mia mente si sta impantanando”, pensò allora Neeno, “Yznar mi distrae con i suoi movimenti, perdo tempo a cercare di capire a che scuola appartiene, mentre dovrei Mutare... perché non ci riesco?
Fece appena in tempo a spostare la spada corta per una parata bassa, ma non provò nemmeno a contrattaccare perché ancora una volta Yznar gli aveva fatto perdere l'equilibrio.
Non era forte, l'Inquisitore, né molto alto, ma i suoi colpi erano sferrati con una violenza inaudita, che mai Neeno aveva provato prima. Il duello con Sarmen al confronto era stato una passeggiata!
Allora lo folgorò un pensiero:
Sarmen! Il Bruco!
Fece tre passi indietro e con un movimento plateale rinfoderò entrambe le lame da cintura, la sciabola e la daga. Chiuse gli occhi e s'inginocchiò sedendosi sui talloni. Sfoderando dalla schiena la spada lunga a due mani, si mise in posizione 'Nzusu.
Adesso Neeno sapeva cosa andava fatto.
Yznar disse: «Finalmente comincia il vero divertimento, mi pare di capire»
***
Tre giorni prima
I due ragazzi mi avevano lasciato da poche ore. Avevo nascosto i cadaveri in una profonda forra abbastanza distante dal pozzo e adesso riflettevo all'ombra di un olivo sulla prossima mossa. Non dovevo lasciare al mio avversario il tempo di capire quale tempesta stava abbattendosi su di lui.
Forse mi sarei dovuto recare direttamente al Sohostero e sfidarlo in casa sua. Oppure avrei dovuto prima cercare altre guardie e farle fuori, in modo da poter affrontare solo l'Inquisitore. Qualche capacità doveva pure averla per aver sconfitto uno spadaccino.
Certo, Xa'yum non era un grande combattente, le losanghe alle sue tempie lo dimostravano: erano state più volte ricolorate, segno indelebile di diverse sconfitte. Tuttavia l'uomo aveva insegnato a sua figlia tutto ciò che conosceva, lo avevo letto dagli sguardi e dal dubbio insinuatosi nella mente della ragazzina: davvero alcuni spadaccini di Zyz non sono dei codardi o dei venduti?
Mancavano ancora delle ore prima che facesse buio e decisi di cercare i famosi pozzi di sale di cui mi aveva parlato il mio anfitrione il giorno prima. Xa'yum era stato una vera sorgente di informazioni, mi sembrava di conoscere quelle colline come fossero casa mia, da quanto bene me le aveva descritte. A mio parere Xa'yum non avrebbe mai dovuto lasciare Zyz, ma sarebbe dovuto rimanere e diventare insegnante: ne aveva la stoffa.
Eppure se era andato via un motivo doveva esserci e forse la nascita della ragazza non era una casualità.
Mi mossi velocemente, senza tuttavia forzare l'andatura: dal punto in cui ci trovavamo, seguendo la direzione nord est, non dovevano essere più di tre miglia dal pozzo d'acqua ai pozzi di sale.
Ero quasi arrivato, quando scavalcai un muretto a secco e la vidi!
«Sarmen!?», feci, sorpreso.
«Neeno Daedem, si saluta così una signora?»
Ero interdetto. La donna che avevo davanti aveva lasciato Zyz cinque anni prima di me. Era l'unica ad avermi mai battuto, seppure in addestramento.
«Certo che no, perdonami!», risposi, «La Lama Grande non si spezzi mai, Mutatore», dissi, infine.
«E le Altre Lame possano sempre essere affilate, Mutatore», rispose lei.
La mente corse all'ultima volta che ci eravamo incontrati.
***

Oggi
Yznar disse: «Finalmente comincia il vero divertimento, mi pare di capire»
Neeno si era reso conto della litania. Finalmente aveva compreso il ritmo del suo avversario; non era nei movimenti, bensì nella sua voce: nemmeno per un istante aveva smesso di pregare il suo dio ed era stato questo ad imprigionarlo!
«Puoi anche smettere di pregare, adesso, prete!»,suggerì Neeno, «Ho compreso il tuo disegno e ho individuato il bruco che rode la tua mente»
«Allora non ti resta che trovarlo e distruggerlo, spadaccino!», lo provocò Yznar, mettendosi anche lui in guardia.
Estraniandosi, la sua mente prese il volo e inseguì Yznar lì dove era andato a prepararsi, mentre i loro corpi rimanevano fermi in posizione di guardia. Neeno vide quattro grandi pareti dai colori cangianti, un tetto a doppia volta con decori che sembravano un tappeto di fiori gialli. Sul pavimento un disegno romboidale di marmo bianco, con svastiche a triple spirali rovesciate.
Il suo corpo d'ombra raccolse l'energia e attaccò con violenza. Era il miglior modo per non permettere al suo nemico di concentrarsi a dovere. Questi ebbe appena il tempo di voltarsi e parare l'onda di energia.
«Sapevo che mi avresti seguito fin qui, Daedem»
Neeno non rispose, ma si concentrò sulle spirali. Doveva impedire che ne facesse uso e scagliò un flusso di scorno verso il pavimento.

Yznar ebbe il tempo di dire solamente “Maledetto” a denti stretti mentre creava un muro difensivo. Avrebbe preferito non ricorrere a tutto il suo potere, ma era evidente che questo spadaccino era davvero un avversario temibile.
Il suo corpo d'ombra si mosse velocemente, approfittando dell'istante di tregua concesso dal muro difensivo e attaccò il suo avversario con un fendente energetico, poi, mentre Neeno tentava di parare il colpo, tornò al suo corpo materiale voltandosi velocemente e tirando fuori una boccetta da una delle ampie tasche della sua veste. Ne versò il contenuto sul pavimento, ma quando cercò di tornare al suo corpo d'ombra si rese conto di aver sottovalutato il suo avversario.

Il corpo d'ombra di Neeno deviò senza fatica il fendente del suo avversario e si rese conto che era stato lanciato in fretta, senza la giusta concentrazione: Yznar si preparava a tornare nel suo corpo materiale lasciandolo lì da solo!
Bene, Inquisitore! Hai commesso l'errore che speravo!”, pensò e il suo corpo d'ombra si mosse senza esitare. Superò la grande sala entro la quale stavano lottando, oltrepassando un arco a sesto acuto dalle bizzarre decorazioni.

«Proprio così, Inquisitore!», lo schernì Neeno, «Non puoi tornare al tuo corpo d'ombra»
Yznar era basito:
«Com'è possibile? Quale Potere hai, spadaccino, per impedirmi di volare al mio corpo d'ombra?»
«Pensavi di aver incontrato altri spadaccini, vero? Si, lo pensavi... ma eri in errore! Neanche Sarmen era una vera Spadaccina di Zyz. il mio corpo d'ombra è nelle tue sale e vedo i corpi dei tuoi vecchi avversari... poveri illusi! Pensavano di essere forti abbastanza... beh, con me non riuscirai: io sono un Vero Mutatore di Zyz e i miei Poteri travalicano i tuoi»
La risata che seguì fece gelare il sangue nelle vene di Yznar: quel giovane lo stava sconfiggendo! Ma non era ancora detta l'ultima parola!
***

Tre giorni prima
«Che fai qui, Sarmen?», le chiesi.
«Sono stata mandata a ucciderti, Neeno»
«Mh, davvero? Ti ha mandata Yznar?»
«Questa è davvero una domanda stupida, da parte tua. Una volta eri più sagace»
«Non hai nulla da dirmi, prima di morire?»
«Niente che non ti abbia già detto quell'ultima volta. Sguaina la tua lama, Neeno, il momento delle parole è terminato molto tempo fa»
L'affrontai. I suoi occhi rossi, i suoi movimenti a scatti, la lentezza dei riflessi: tutto mi diceva che faceva un uso smodato di oppiacei. Provavo pietà per lei: un tempo era stata una delle allieve predilette del Mago Zoras, una delle migliori spade di Zyz. Soprattutto, però, ci eravamo amati.

A otto anni, quando fui ammesso alla scuola, lei era già lì da un anno e la conobbi in maniera piuttosto turbolenta. Ero mingherlino a quel tempo e gli altri ragazzi mi avevano subito preso di mira a causa del mio sangue misto.
Fin quando erano in due o tre riuscivo a tenerli a bada abbastanza bene: non ero digiuno di scherma, poiché il soprastante del mio padrone mi aveva insegnato i rudimenti del bastone corto. Un giorno però, mentre andavo verso il ruscello con due secchi da riempire, mi si pararono dinanzi in sette. Tra loro c'era anche Sarmen.
Iniziarono a provocarmi e quando arrivò la prima spinta non seppi resistere: scaraventai un secchio in faccia al capo della combriccola, Yul'yah e roteando l'altro secchio provai a tenerli lontani da me, ma erano in troppi. Presto mi furono tutti addosso e mi avrebbero massacrato di botte se Sarmen non avesse preso le mie parti. In due li mettemmo in fuga e Yul'yah ce la giurò.
Da quel giorno io e Sarmen fummo inseparabili. Sia lei che io procedevamo negli insegnamenti più speditamente degli altri. Grazie al mio sangue Vaunlay, avevo una capacità sensoriale maggiore, mentre Sarmen aveva un'agilità e una velocità senza pari nella scuola.
Passarono gli anni ed entrambi eravamo cresciuti. Dall'amicizia dell'infanzia, il nostro rapporto si era trasformato in qualcosa di più e questo faceva preoccupare il nostro maestro. Ci ripeteva spesso che non poteva impedire che di amassimo, ma ci metteva in guardia verso questo sentimento che, secondo lui, ci indeboliva.
Non lo ascoltammo. E continuammo a incontrarci e allenarci insieme.
Passò un altro anno e Sarmen era a un passo dal raggiungere la Prima Perfezione, il primo vero traguardo per chi frequentava la scuola.
Era il quinto giorno d'autunno e ancora oggi non so con precisione cosa accadde: Sarmen mi raccontò che andava da sola verso il tempio di Blen, a pregare per l'esame che avrebbe affrontato di lì a poco. Yul'yah e i suoi compagni la sorpresero alle spalle e le fecero del male.
Per anni fui vittima del rimorso per non essere stato presente.
Lei ne parlò solo con me, il giorno dopo, pesta e dolorante. Parlammo a lungo e, per la prima volta, mi disse che desiderava andare via da Zyz, che la sua vita non poteva rimanere legata a quel luogo: i ricordi l'avrebbero uccisa.
Litigammo, perché volevo convincerla a rimanere e denunciare al Mago Zoras l'accaduto. Le proposi persino che l'avrei aiutata a vendicarsi, se solo avesse atteso qualche tempo per calmare il suo spirito secondo gli insegnamenti della scuola.
Non volle la mia compagnia quella notte e non accettò la mia proposta di andare via insieme.
«Quando sarò pronta andrò via da sola», concluse.
La mattina successiva trovarono i cadaveri sgozzati di Yul'yah, Nerghil, Chulchan e Moudimer.
Sapevo che era stata lei, ma il sospetto venne a tutti, poiché era fuggita nottetempo.

Sarmen era stesa a terra e io, a tre metri di distanza, non avevo il coraggio di guardarla.
«Finiscimi», disse.
Non seppi cosa dirle. L'avevo ferita in maniera piuttosto grave e il mio cuore piangeva, mentre i miei occhi si facevano di ghiaccio.
«Uccidimi, Neeno, te ne prego! Sai che potrei riprendermi da questa ferita, lo sai bene...»
«Lo so, Sarmen. Perché vuoi che ti uccida? Già una volta abbiamo preso strade diverse... posso portarti da un mio conoscente che si prenderà cura di te fino a quando ti sarai ristabilita e poi potrai andare nuovamente per la tua via»
Ero riuscito a guardarla negli occhi. Quegli occhi che erano stati la mia benedizione per tanti anni e la mia maledizione quasi per altrettanti. Adesso mi erano estranei, velati dalle droghe e iniettati di sangue e sofferenza.
«Non sai cosa ho passato in questi anni, Neeno Daedem. Non sai che significa essere schiavi»
Tossì e sputò del sangue, poi continuò:
«Ho vagato a lungo alla ricerca della pace e la mia spada ha bevuto molto sangue. Per dimenticare ciò che mi martoriava ho preso a fumare oppio e da lì è iniziato il mio declino»
Il suo viso era una maschera di sofferenza, e non era la ferita a farla soffrire.
«Non devi giustificarti con me e non devi raccontarmi nulla se non vuoi», le dissi.
«Ma io voglio! Voglio che tu capisca perché devi uccidermi! Mi credi davvero tanto stolta da non sapere che mi avresti sconfitta? Eppure ho accettato il denaro che Yznar mi ha dato per affrontarti! Trovo giusto che sia tu a porre fine alla mia misera esistenza. Sei l'unica persona che mi ha mai voluto bene veramente»
Le mie certezze stavano crollando. Mi mossi verso di lei. Non avevo ancora rinfoderato la spada.
«Da quando sei agli ordini dell'Inquisitore?»
Mi guardò dritto negli occhi e per un attimo riacquistò la sua dignità:
«Non sono ai suoi ordini. A volte passo da qui per rifornirmi di oppio da un mercante e Yznar mi paga per... degli incarichi»
«Io sono un incarico?»
Avevo sottovalutato il servizio di spie dell'Inquisitore, ma avrei dovuto immaginarlo: in un paese tanto piccolo un tipo come me non passava inosservato. Mi chiesi se Xa'yum fosse ancora vivo.
Sarmen tardò a rispondere. Il suo respiro si faceva sempre più corto. La perdita di sangue iniziava a farsi davvero grave.
«Che ne dici, allora? Siamo ancora in tempo per salvarti la vita, Sarmen»
«Ti ho chiesto di uccidermi!», urlò, poi un accesso di tosse la piegò in due. Mi inginocchiai accanto a lei e le presi la testa con una mano, mentre con l'altra, lasciata cadere la spada, cercavo di ripulire il viso dal sangue che stava ancora sputando.
«Yznar pensa di sapere tutto di te», disse quasi in un rantolo. «Ha ucciso altri spadaccini, ma nessuno di questi era bravo quanto te. Arriverà un momento in cui penserà di aver vinto e abbasserà la guardia. Trova il bruco che gli rode la mente e lo sconfiggerai»
Aveva gli occhi chiusi e sembrava quasi rilassata.
«Adesso uccidimi, ti prego. Nel nome di quello che c'è stato fra noi, Neeno... poni fine alla mia esistenza, non ne posso più di viverla!»
L'accontentai.
«Ti ho amata a lungo, Sarmen, e avrei voluto un destino diverso per noi due», dissi piangendo.
***

Oggi
Il corpo d'ombra di Neeno superò l'arco a sesto acuto con la spada lunga impugnata con la destra. Entrò in una sala meno larga ma molto più lunga della prima. La parete sinistra era affrescata con immagini oscene di sacrifici umani e di orge: Neeno si domandò se il suo Dio conosceva la mente di Yznar e, se era così, come mai non lo puniva! I seguaci di Muhadd avrebbero dovuto praticare l'ascesi e l'astinenza.
La parete sulla destra alternava grandi finestre decorate con mosaici a statue di numerosi Dei pagani e fiere mitologiche. Percorreva la sala in silenzio e sentiva i suoi passi rimbombare lungo il corridoio di marmo bianco. Nessun disegno ornava né il pavimento, né il soffitto.
Non c'era altra fonte di illuminazione che le finestre eppure la luce era diffusa uniformemente nella grande sala e non c'erano ombre. Non si stupì di questo: aveva vagato nelle menti di molti dei suoi avversari, ed erano pochi coloro che conoscevano il segreto di differenziare le luci nei loro mondi interiori.
Ciò che lo stupiva di più era il fatto che, più camminava, più la sala sembrava diventare lunga: non sembrava esserci una fine. Gli sembrò evidente che ciò che cercava doveva trovarsi lì da qualche parte.

Yznar recitò la litania che doveva seguire lo sversamento del liquido. Era un linguaggio oscuro, che Neeno non comprese: si lasciò un istante per scrutare il suo corpo d'ombra e agì senza ulteriori indugi. Attaccò il suo avversario mentre questi recitava l'incantesimo, ma non riuscì a raggiungerlo. Ebbe la sensazione che un muro di energia lo trattenesse, ma fu per poco: l'incantesimo ebbe successo e Neeno si trovò circondato da una dozzina di avversari armati di spada e scudo, protetti da alti elmi di ferro.
Lo spadaccino rimase scioccato quando si rese conto che a circondarlo erano state le statue poste a guardia dell'altare!
Tuttavia dovette riprendersi immediatamente dallo stupore iniziale, poiché le statue lo attaccarono tutte insieme. Si trovò a schivare corpi di pietra e lame d'acciaio, intercettando e deviando colpi portati con violenza inusitata.
Yznar si teneva lontano dallo scontro, ridendo soddisfatto perché il suo avversario stava per soccombere. L'Inquisitore tentò nuovamente di accedere al suo corpo d'ombra, ma non vi riuscì neanche stavolta.

«Forse non riuscirò a entrare nel mio corpo d'ombra, spadaccino, ma posso aiutare i miei guerrieri di pietra a distruggerti qui e adesso, così il tuo corpo d'ombra sarà per sempre relegato nel mio mondo interiore e potrò sfruttare tutti i tuoi poteri!», urlò lanciandosi all'attacco.
Neeno pensò: “Sono vicino, mi basta solo un altro minuto! Devo resistere!”, poi nient'altro lo distrasse dalla lotta.

La sala era immensamente grande. Doveva trovare anche un piccolo indizio che lo portasse al “bruco” di cui aveva parlato Sarmen. Al momento le armi non gli servivano lì dentro e rinfoderò la spada.
Sedette a gambe incrociate intuendo che una delle statue doveva essere la rappresentazione del bruco... una sorta di simulacro che, distrutto, avrebbe distrutto anche l'Inquisitore.
Non aveva tempo di controllare le statue una ad una, i suoi avversari lo stavano sfiancando e le ferite riportate all'inizio dello scontro con Yznar lo indebolivano sempre di più. Non sapeva quanto avrebbe resistito ancora.
Cercò di ricordare tutto ciò che sapeva dei seguaci di Muhadd.
L'intolleranza per tutto ciò che era diverso da loro caratterizzava ogni loro atteggiamento. Erano intransigenti e violenti nei confronti dei credenti di altre religioni. Ai loro sacerdoti, dai pretucoli di campagna ai grandi Inquisitori, era vietato prendere moglie e non potevano possedere beni materiali, anche se potevano gestire terre e rendite per conto del Dio Muhadd stesso.
Cosa potrebbe rodere una mente come quella dell'Inquisitore Yznar? Forse... che sia il potere? No, troppo semplice... forse la ricchezza? No, nemmeno, non hanno bisogno di ricchezze”, s'interrogava Neeno.
Improvvisamente spalancò gli occhi che aveva chiuso per riflettere. Il suo sguardo si posò su un altare dall'aspetto insignificante, scarno e dai colori pallidi, piccolo e privo di grazia o bellezza.
Neeno comprese subito che le sue riflessioni lo avevano portato in un “luogo dell'anima”, forse proprio il bersaglio che andava cercando! Muoversi fisicamente non avrebbe avuto senso in un luogo del genere, il pensiero lo aveva fatto spostare molto più in fretta e senza inutili tentativi.
Alzatosi, notò che sull'altare era poggiata un piccolo sasso verde-grigio. Allungò una mano per prenderlo e osservarlo meglio, ma una fitta di dolore al fianco destro lo bloccò!
Era stato ferito!
Sangue prese a colargli sulla gamba e una nuova ferita si aprì nella spalla sinistra. Piegato in due dal dolore cadde a terra. Si rialzò a fatica. Se fosse morto nel mondo reale il suo corpo d'ombra sarebbe rimasto schiavo di Yznar per un tempo che a lui sarebbe parso infinito, non poteva permetterlo!
Strinse i denti e allungò il braccio verso il sasso. Lo ghermì e gli parve di udire un urlo disumano fin dentro il suo cervello. Non riuscì a muovere il sasso e allora sguainò la spada lunga a due mani. Si concentrò, alzò la spada e colpì la pietra e l'altare con un un singolo fendente.
L'urlo si ripeté più forte e l'onda d'urto lo spinse indietro per centinaia di metri. Sbatté la schiena su una dura parete di roccia e svenne.

Quando riaprì gli occhi giaceva con la schiena appoggiata a una parete del Sohostero. Le statue-guerriere erano riverse sul terreno attorno a lui e il cadavere dell'Inquisitore giaceva immobile in una posa assurda a pochi passi dalla sua spada.
***

Cinque giorni dopo
«Ti sei svegliato, finalmente!»
A Neeno parve di conoscere quella voce.
«Hai dormito per quattro giorni e cinque notti. Mi sono preso cura di te, fratello, ho curato le tue ferite e fatto quello che potevo per la tua mente. È stata una dura prova per te, ma adesso hai il tuo fuso sulla fronte, Neeno Daedem»
Neeno udì la sua voce rispondere come provenisse da una caverna, tanto era diversa da come la ricordava:
«Mi ha maledetto», disse. «Ha detto che ogni giorno dovrò uccidere qualcuno, altrimenti invecchierò di un anno»
Xa'yum lo osservò tetro:
«Una Maledizione Senza Tempo. Sono le più terribili»
«Me ne devo liberare, Xa'yum. Non posso vivere ogni giorno della mia vita con il solo scopo di uccidere! Potrei impazzire!»
«Non so come aiutarti, amico. Ma adesso riposa, dormi ancora qualche ora, poi vedremo cosa fare»
Neeno si alzò a sedere con grande fatica.
«La mia spada. Dammela. Devo andarmene immediatamente, non posso vivere nella tua casa e rischiare che mi venga voglia di uccidere te e tua figlia per non invecchiare»
Odiò la sua nuova voce. Era rauca e gli sembrava provenire dalla gola di un morto.
Xa'yum si allontanò per pochi minuti, poi tornò con la lunga lama d'acciaio.
«La mia voce non tornerà mai normale, vero Xa'yum?», chiese Neeno.
«Temo di no. Hai subito una brutta ferita alla gola, è già tanto che tu non l'abbia persa del tutto. Vuoi davvero andare via?»
«Devo, amico mio. Ho già troppi ricordi terribili qui ad Àcatoy, non desidero aggiungerne degli altri»
«Come preferisci. Sappi però che io sarò qui, se deciderai di tornare»
Neeno annuì, ma rimase in silenzio. Si alzò, soppesò la spada e la ripose nel semplice fodero di cuoio e legno. Xa'yum preparò le sue poche cose.
Uscendo, Neeno chiese a Xa'yum dove fosse sua figlia. L'ex-spadaccino rispose:
«Ha chiesto di essere mandata a Zyz. Ho acconsentito. È partita ieri mattina con il suo amico Mucha, desideroso anche lui di diventare uno spadaccino»
«Speriamo abbiano un destino migliore del nostro, addio Xa'yum»
«Addio Neeno»
Lo guardò andare via. Strani pensieri presero forma nella sua mente, ma li scacciò infastidito e tornò alle sue occupazioni. Aveva una sedia da completare.

sabato 22 maggio 2010

Lo Spadaccino di Zyz - Seconda parte

C'è un tempo per la semina e uno per il raccolto.
Chi semina al tempo giusto raccoglierà al tempo giusto.
Chi non semina non raccoglierà nulla, ma chi percorre la Via è egli stesso il Seme e il Raccolto
Mago Zoras

Lo Spadaccino di Zyz – Seconda Parte

«Lo straniero, quello arrivato ieri!», disse Mucha. Era un ragazzino di tredici anni, piccolo per la sua età, secco come un chiodo, dai capelli neri e gli occhi a mandorla castani. Seduto sul muro a secco che delimitava il terreno di suo padre, mangiava una nespola dolce e ne lanciava i semi contro gli uccelli che aveva a tiro. Colpì un colombaccio e proseguì.
«Ha preso Ven'zo e lo ha sbattuto al muro, poi gli ha rotto il fucile! L'ho visto coi miei occhi! Ero alla fontana con Camerol Cuegi, il figlio del ciabattino»
«Lo conosco Camerol, è un cretino», disse Lilijan. Mucha sembrò risentirsi del commento acido. «Lo straniero si chiama Neeno e ha dormito da mio padre, poi prima che facesse giorno è sparito.», continuò la ragazza, «Quando sono arrivata a casa, stamattina, mio padre aveva una faccia che sembrava appena tornato da un funerale!»
Mucha la guardò. Per la prima volta in vita sua notò qualcosa di diverso dalla solita ragazzina sempre scompigliata con cui giocava da quando erano piccoli. Forse un accenno di seno, forse una luce diversa negli occhi, ma la sua amica era diversa e non solo esteriormente.
«Cosa pensi che voleva tuo padre da lui?», chiese.
«Che vuoi che ne sappia io?». Detto questo Lilijan saltò giù dal muretto e con uno sguardo provocatorio disse: «Perché non andiamo a bere un po' d'acqua pulita dalla fontana di Pica-Wica?»
Mucha la guardò sconsolato. Si domandò perché quella ragazzina riuscisse a trascinarlo in situazioni sempre più pericolose. Disse:
«Ci saranno le guardie, come al solito...»
«Hai paura?», lo provocò Lilijan.
«Si, e dovresti averne anche tu! Quelli potrebbero prendere a legnate me e non voglio pensare cosa potrebbero fare a te, se ci beccassero a rubare acqua che non ci spetta!»
«Basta che non ci facciamo prendere! », rispose imperterrita Lilijan. Lanciò una nespola a Mucha e iniziò a correre.
Il ragazzo fu svelto a evitare il frutto, saltò giù dal muro e corse dietro all'amica, osservandone i capelli rossi agitarsi per la corsa e provando strane sensazioni al basso ventre intuendone le forme sotto i poveri vestiti.

Era passata da poco l'ora del pranzo e il sole cuoceva il terreno. Le due guardie previste da Mucha sonnecchiavano all'ombra del grande noce della fontana.
Lilijan disse sottovoce:
«Vedi? Te lo dicevo che a quest'ora dormono! Vieni!»
Si mosse lentamente cercando di fare più silenzio possibile, seguita da Mucha. Il loro incedere fu interrotto dall'arrivo di una donna con due secchi. Si avvicinò alla fontana e iniziò a riempire il primo, manovrando con gran rumore la leva per l'acqua. Mucha era scioccato, infatti disse a Lilijan:
«Ma che fa questa pazza? Non sa che è vietato riempire due secchi per volta? Guarda, adesso si svegliano e le fanno la festa!»
Lilijan si limitò ad annuire e continuò ad osservare la scena.
Una delle due guardie si svegliò e diede di gomito al commilitone accorgendosi che la donna stava iniziando a riempire il secondo secchio. Si dissero qualcosa che i ragazzi non riuscirono a sentire.
«Hey, donna!», disse il soldato alzandosi, «Si può sapere che stai facendo?»
Le si avvicinarono con fare minaccioso, impugnando le mazze d'ordinanza. Lilijan si accorse che uno dei due era Ven'zo. Continuando a minacciarla e spingendola violentemente gettarono nuovamente nel pozzo l'acqua sia del primo che del secondo secchio.
I due si lanciarono un'occhiata complice e Ven'zo disse alla poveraccia che cercava di giustificarsi:
«Zitta, donna! Forse possiamo perdonarti e forse ti faremo andare via con un secchio pieno d'acqua, ma dovrai fare qualcosa per noi!»
La richiesta fu accompagnata da una mano portata ai genitali e la donna prese a lamentarsi e cercò di fuggire, ma fu bloccata dal secondo soldato, che la spinse violentemente mandandola a sbattere per terra.
Lilijan digringnò i denti in un'espressione che Mucha conosceva bene e disse “bastardi” sottovoce. Mucha la vide girarsi e raccogliere un bastone. Pregò perché la sua amica non facesse pazzie e cercò di dissuaderla dal muoversi, ma fu qualcun altro a fermarla.
«Non muovetevi da qui», disse una voce imperiosa. Mucha si girò a guardare il proprietario della voce, che frattanto aveva tolto il bastone dalle mani di Lilijan. Era lo straniero!
I suoi occhi gialli li guardavano freddi e feroci come quelli di una tigre e i capelli rossi striati di nero erano legati dietro la testa. Non fecero in tempo a dire nulla che li superò come un fulmine e fu addosso ai soldati prima ancora che quesi se ne rendessero conto.
Ven'zo fu il più pronto a reagire e mentre il suo compagno prendeva una bastonata in volto - a Mucha e a Lilijan sembrò di vedere dei denti che volavano! - estrasse la spada lunga che portava al fianco e cercò di colpire lo straniero urlando con rabbia.
Il fendente fu facilmente deviato dal bastone che un istante dopo colpiva violentemente una mano, facendo cadere la spada a terra. Altri colpi veloci e violenti arrivarono a Ven'zo, uno di punta alla bocca dello stomaco, uno al ginocchio, uno alla nuca.
L'altro soldato, Pychon - Mucha lo riconobbe, adesso - ebbe il tempo di realizzare che il loro avversario era troppo abile per le loro spade e tirò fuori la pistola dalla cintola. Era una moderna pistola ad avancarica, di quelle prodotte a nord est del Grande Mare, notò Mucha. Doveva essere già carica, perché Pychon la puntò e sparò allo straniero.
Era vicinissimo, eppure lo mancò! Oppure fu Neeno a schivare la palla, Lilijan non avrebbe saputo dirlo, seppure le parve di vedere un movimento impercettibile della testa di Neeno... seguito dal baluginare di una lama d'acciaio e da un ritmico fiotto di sangue dalla gola di Pychon.
Un istante dopo una lunga lama era poggiata alla gola di Ven'zo. Mocha e Lilijan udirono distintamente le parole della guardia:
«Brutto bastardo, hai ucciso Pychon!»
«Sembrerebbe di si. Il tuo sguardo mi lascia supporre che tu non abbia parlato a nessuno di me e mi viene da pensare che i tuoi amati concittadini non si lasceranno sfuggire una parola con i tuoi capi», disse Neeno senza spostare la lama di un pollice.
Ven'zo disse qualcosa che né Mucha, né Lilijan riuscirono a sentire, ma che provocò uno scoppio di ilarità in Neeno, che rispose:
«Peccato tu non abbia alcuna abilità marziale, guardia. Avresti potuto essere un ottimo avversario... con le parole e l'arroganza te la cavi e potresti essere anche un ottimo allievo... è davvero un peccato che io debba ucciderti»
Lo decapitò con un veloce movimento del braccio.

Mucha e Lilijan uscirono dal loro riparo mentre Neeno aiutava la donna a rialzarsi. Con un cenno della testa fece intendere ai ragazzi che dovevano riempire i secchi della donna.
«Grazie signore, grazie davvero, ma la prego adesso vada via, se l'Inquisitore vi troverà vi farà a pezzi», disse la donna.
«La ringrazio signora, ma non gliene darò il tempo, presto sarò io ad andarlo a cercare»
Le passò un fazzoletto per pulirsi dal sangue delle labbra.
I ragazzi le passarono i secchi pieni d'acqua e lei andò via, biascicando ancora ringraziamenti.
Mucha era estasiato, mentre Lilijan manteneva un'espressione dubbiosa, così come piena di dubbi rimaneva nei confronti di quello straniero.
«Che farai, adesso?», gli chiese.
Neeno la guardò, poi spostò lo sguardo su Mucha. Entrambi i ragazzi ebbero la sensazione che stesse scrutando nelle loro anime con quegli occhi gialli dalle pupille piccolissime. Il tutto durò pochi secondi, ma ai ragazzi parve un'eternità.
«Tu sei Lilijan, la figlia di Xa'yum, giusto? Hai gli occhi di tuo padre. E tu, ragazzo, mi sembra di averti già visto, o sbaglio?»
«No... non sbagliate signore, giocavo alla fontana in paese quando siete arrivato, ieri pomeriggio»
«Si ricordo, eri insieme all'altro ragazzino con i capelli castani. Immagino sappiate il mio nome», non era una domanda e proseguì, «Mi chiedevi cosa farò adesso, Lilijan. Penso di potermi fidare di voi, quindi ecco cosa farò: vi chiederò di tornarvene a casa, mentre nasconderò i cadaveri, dopodiché andrò a uccidere il vostro Inquisitore, non senza avergli ammazzato altre guardie. Non mi andrebbe di trovarmeli tra i piedi quando affronterò il loro capoccia»
«Perché lo fate, signore?», chiese Mucha, «Non siete del paese, non ci conoscete e non ci dovete nulla, eppure ci dite che ci libererete dall'oppressione»
Lilijan rincarò la dose:
«Mio padre stamattina sembrava distrutto. Siete sparito senza dirgli nulla. Cosa gli avete promesso? Ho capito chi siete voi, siete un cane sciolto, uno di quegli uccisori senza padrone. Sicuramente quando sarete di fronte all'Inquisitore passerete al suo servizio e diventerete un oppressore anche voi, come tutti gli altri!»
Neeno sembrò soppesare le loro parole, poi rispose:
«Tuo padre non ti ha mai parlato di Zyz, Lilijan? No, immagino di no. Noi spadaccini di Zyz non ci mettiamo spesso al servizio dei potenti... come posso spiegarvelo? Mettiamola così: alcuni di noi sono effettivamente dei cani sciolti, alla ricerca di qualcosa, di un'illuminazione e cercano sempre nuovi avversari, sempre più forti e sempre più pericolosi», si guardò intorno, poi proseguì.
«Forse con il vostro Inquisitore ho trovato la mia sublimazione, colui che mi permetterà di passare a un altro stadio della mia crescita interiore. Non lo faccio per altruismo, né lo faccio per tuo padre», disse rivolto a Lilijan, «seguo la Via dei Mutatori, coloro che, mutando il loro animo, si estraniano dal corpo che così combatte da solo, percependo in anticipo dove colpirà il suo avversario e reagendo con violenza e velocità a qualsiasi attacco, non difendendosi mai ma attaccando sempre.
«Non è semplice da capire, ci vogliono anni di duro allenamento fisico e spirituale e ci vogliono ottimi maestri. Il mio era il migliore»
Mucha era affascinato da quell'uomo strano e chiese:
«Potrei diventare abile come voi? Potrei essere anch'io un Mutatore?»
«Quanti anni hai, ragazzo?»
«Quasi tredici»
«Sei già molto grande... fatti guardare meglio»
Lo scrutò a fondo con quei suoi occhi gialli. Lo osservò a lungo, poi disse:
«Forse. Dovresti andare a Zyz al più presto, però»
Lilijan non era affatto convinta da quell'uomo strano. Decise che ne avrebbe parlato al padre. Senza dire una parola prese Mucha per un braccio e lo trascinò via, lasciando Neeno da solo.