sabato 14 novembre 2009

Zolfo

Un barlume, una scintilla e braccia forti che ti afferrano e ti liberano dal fango in cui sei sepolto. Finalmente puoi dormire.
Dopo un tempo che ti sembra infinito apri gli occhi e sono sagome familiari quelle che ti compaiono d'innanzi: Maria e il piccolo Luigi, tuo padre, la tua vecchia madre.
Ti sovviene ciò che è accaduto e distogli lo sguardo: non vuoi vedere i loro occhi, leggervi l'innocenza che tu hai perduto.
Ma, anche così, anche se abbassi le palpebre non puoi dimenticare, non puoi far finta che niente sia successo.
È notte adesso, dalla finestra la luce di un lampione rischiara la tua stanza d'ospedale. Non sopporti più il buio anche se hai la consapevolezza che mai più vedrai la vera luce.
Un'oscura presenza ti fa compagnia, angosciante e immanente. Ti osserva nella tua scura notte e ti costringe a ricordare. Il tuo fantasma.

Onofrio che urla e rimane sepolto da una montagna di detriti.
Masìno che primo fra tutti si rende conto che siete intrappolati nella solfatara.
Fonso che per ultimo smette di picconare la roccia.
Non è soltanto l'odore di zolfo a opprimervi, anche la danza di una torcia che dà una flebile speranza non è abbastanza.
Improvvisamente la vedi.
Una forma spettrale, una trasfigurazione muta e orrenda si fa strada in mezzo a voi. Prova a ghermirti con uno sguardo languido, ma riesci a non farla vincere. Non sarai tu la sua preda. Non oggi.
Sono Pino e Fonso a esserne catturati. Iniziano a lamentarsi e a piangere sé stessi. La Disperazione li ha presi, li ha fatti suoi e nulla li può salvare. Lo sai, hai visto il fantasma venire fuori dalla polvere e prendere una parvenza di vita. Hai visto il suo ghigno nel momento in cui afferrava i tuoi compagni e li precipitava nel buio.
Vedi i corpi senza vita di Pino e Fonso: a cosa servirà il loro sacrificio, ti chiedi. Anche se si sono suicidati, ciò non vi libererà, non ti libererà. Anzi.
Franco si guarda intorno incerto e vi guida verso quello che crede essere un condotto di areazione. Ma ecco un altro fantasma che si leva tra voi. Masìno per primo ne viene catturato e inveisce contro Franco, che vi guida verso morte certa. Si scaldano gli animi e volano parole grosse. La Frustrazione prende il sopravvento e scoppia furiosa una rissa. Si mette mano ai coltelli.
I cadaveri massacrati di Franco, Masìno e Filippeddu ti riportano alla cruda realtà.
Sei in trappola e vi siete uccisi fra voi. Solo tu sei vivo. Sei rimasto solo.

Riapri gli occhi. È giorno e il tuo fantasma ti ha lasciato per un po'. C'è un'infermiera accanto a te e le sue parole suonano vuote e insignificanti.
Neanche il viso di tuo figlio, neppure il suo sorriso innocente può redimere la tua anima colpevole. Ti avvicini alla finestra e senti il tuo fantasma nuovamente accanto, una presenza sempre più costante e terribile.

Sei rimasto solo ed è sempre notte nella solfatara. Quanto tempo è passato, ti chiedi. Quando è finita l'acqua, ti chiedi.
Gli altri sono tutti morti e sei rimasto solo, unico rimasto ancora vivo.
Un ultimo fantasma ti si para d'innanzi. È venuto per te e per nessun altro.
Le sue fauci fameliche si chiudono sul tuo cuore e, improvvisa, una Fame come mai avevi avuto si fa strada nelle tue viscere.
Non sono più cadaveri quelli che vedi, ma corpi senz'anima, involucri inutili per chi un tempo li occupava.
Vorresti non ricordare, ma nei sogni ne rivivi ogni istante.
Il tuo coltello che si fa strada fra le carni, la tua mano sanguinolenta che porta il nutrimento alla bocca.

La Fame adesso è passata, ma il tuo nuovo fantasma è molto più subdolo e opprimente.
Non dà tregua e non vuole più abbandonarti.
Ti avvicini alla finestra e a un tratto comprendi.
Agisci immediatamente, solo così potrai liberarti dal Rimorso.
Ti sei cibato dei tuoi compagni per vivere, ma non reputi vita questa.
Mentre il suolo si avvicina senti finalmente il fantasma abbandonarti, ma cos'è la risata che senti un attimo prima di sfracellarti per terra?

lunedì 14 settembre 2009

Diario

Ieri ho ucciso un uomo.
L'ho sorpreso a rubare della benzina dalle nostre scorte e mi ha assalito con il coltello. Ho reagito istintivamente tirando fuori la daga e conficcandogliela nello stomaco mentre con l'altra mano paravo il colpo che mi avrebbe accecato. Anche lui mi ha colpito, un taglio allo zigomo sinistro. Mi hanno ricucito con cinque punti.
Ieri ho ucciso un uomo.
È la prima volta che uccido un uomo. In quei pochi istanti non ho avuto il tempo di riflettere. Vedendolo correre verso di me con gli occhi spiritati e con il coltello in mano, il mio corpo ha reagito da solo, non era guidato dalla mia coscienza. Ho spostato il baricentro lateralmente, ho impattato il suo braccio quanto bastava per deviare il suo colpo e ho affondato la mia lama nel suo ventre. Non è morto immediatamente. Ho chiamato aiuto pochi istanti dopo e qualcuno è arrivato. Non hanno potuto fare molto. Lo avevo passato da parte a parte, probabilmente perforandogli lo stomaco e rompendogli un paio di costole. È morto dissanguato.
Ero sconvolto, terreo in volto, mi hanno detto. Non mi resi conto di ciò che era successo fino a quando non sono arrivato di fronte a mio padre, molti minuti dopo.
Il volto di mio padre sembrava fatto per ridere. Le sue labbra ridevano spesso, ma i suoi occhi non lo facevano mai. Nemmeno ieri.
Tornava da una spedizione, nel corso della quale avevano dato battaglia ai giovani teppisti della città bassa. Federico gli ha raccontato cosa era accaduto e mio padre si è complimentato con me, dicendo: «Hai compiuto il tuo dovere, Nino», ma i suoi occhi erano freddi.
Immagino che avrebbe voluto un futuro diverso per me e mia sorella.
Ho ricordi di quando ero bambino, di quando ancora il mondo non era andato avanti.
Io, mio padre, mia madre e mia sorella, seduti attorno alla nonna che ci leggeva le storie del nonno, l'uomo del quale porto il nome. Il nonno raccontava storie. Le aveva raccontate ai suoi figli sin da quando erano neonati e mia nonna le aveva conservate tutte. Ci leggeva le storie del nonno, storie di magia e storie di principesse guerriere, storie di mondi inesistenti che si facevano più veri del vero tramite la voce di mia nonna Daniela.
Ricordo mia zia e i miei cugini, quando andavamo tutti nella casa sul mare. Giocavamo fra le onde o nel giardino con gli animali. Fu lì che a sei anni trovai l'arco del nonno. Lo stesso arco che ancora oggi porto con me.
Da allora il mondo è andato avanti. E ieri ho ucciso un uomo.
Era vestito rozzamente: un paio di jeans sdruciti, una camicia a quadri di flanella, una giacca di lana marrone e un berretto con la visiera. Le sue scarpe erano bucate.
Accogliamo spesso i viandanti: diamo loro da mangiare, un tetto dove ripararsi dal freddo o dal caldo. Purché non ci chiedano di essere pagati. Purché non tocchino la nostra benzina o le nostre scorte.
Mio padre dice che in questi tempi difficili l'ospitalità è indispensabile: «Altrimenti diventeremmo come bestie», dice.
Anche a quest'uomo avevamo dato ospitalità. Poteva avere trent'anni ed era affamato. Magro e febbricitante. Gli avevamo preparato una zuppa di verdure con qualche pezzo di carne, gli avevamo dato una fetta di pane. Nottetempo si era accucciato in un angolo dell'androne, alla destra della testa in bassorilievo che mi faceva tanta paura quando ero piccolo.
Mio padre era partito qualche minuto prima dell'alba e l'uomo era rimasto fermo al suo posto, nonostante il trambusto dei cavalli. Avevo pensato che doveva essere molto stanco e lo avevo lasciato lì. Poi aveva tentato di rubare la benzina e io l'avevo fermato. Io l'avevo ucciso.

Sono rientrato in casa per fare colazione e un brivido mi percorre la schiena appena mi siedo a tavola. Mia sorella mi guarda con i suoi occhi verdi e mi fa vedere ciò che sta osservando: nelle nebbie del futuro è ben chiara la visione di tutto ciò che è già accaduto. Io ucciderò un uomo.
Come in un film, si dipana anche nei miei occhi ciò che è già accaduto in un possibile futuro. A quel punto so cosa farò.
Domani ucciderò quest'uomo. Quest'uomo in piedi davanti a me.
«Chi sei?» gli chiedo.
«Mi chiamo Benedetto» risponde «so che fate dono della vostra ospitalità»
È vestito in abiti dimessi: jeans sdruciti, camicia a quadri di flanella e giacca di lana marrone. Un berretto con la visiera
«Entra pure» gli dico «non neghiamo l'ospitalità a chi ce la chiede. Non tolleriamo però furti o altri comportamenti scorretti nei nostri confronti» gli sto dando una nuova possibilità.
«Grazie, davvero mille grazie» mi dice.
Il suo sguardo sfuggente mi da la conferma che stavo cercando: è lui.
Benedetto mangia al nostro desco. Benedetto dorme nell'androne. Benedetto aspetta che mio padre sia partito, prima di andare a scassinare la serratura che chiude il magazzino della benzina.
Adesso so: oggi ucciderò quest'uomo.

mercoledì 2 settembre 2009

Il Rapimento

L'aria fumosa della taverna aveva impregnato i muri, rendendoli più scuri di quanto già non fossero in origine. Gli avventori facevano la spola fra i tavoli e il bancone portando bottiglie di vino e, a volte, piatti con interiora di vitello e cipolla bagnati con limoni. Ai tavoli si giocava al tocco, si discuteva animatamente e c'era un atmosfera rilassata di giovialità e cameratismo.
Fra tutti i clienti del locale, solo Vathor era seduto al bancone con un unico bicchiere di grappa davanti. Non lo aveva ancora toccato, eppure parlava come un ubriaco, lamentandosi della crudeltà della vita e della sua terribile sorte con quella vocetta che più volte lo aveva reso ridicolo alle riunioni di piazza.
Quel giorno, tuttavia, aveva un ottimo motivo per lamentarsi della sua sfortuna. Sua figlia Ryella era stata rapita tre giorni prima e suo fratello Seppe, capo della milizia del barone, non era stato ancora in grado di trovare alcunché.
Vathor aveva promesso un premio in denaro a chi avesse trovato la figlia o a chi avesse fornito indicazioni utili al suo ritrovamento. Poiché era uno dei cittadini più facoltosi di Baha'rya, in molti si erano presentati da lui millantando informazioni che si erano rivelate assolutamente fasulle.
Quel giorno, alla taverna, entrò uno straniero. Aveva l'aria di chi sa il fatto suo, infatti il suo volto era segnato da cicatrici, al fianco sinistro portava una lunga spada dall'elsa molto elaborata e l'impugnatura di un pugnale faceva capolino dallo stivale destro. Una sudicia cappa bordeaux, che ai suoi tempi doveva essere stata bellissima, gli copriva le spalle possenti.
Non c'erano dubbi: sia l'odore emanato, sia il senso generale di sporcizia della sua intera figura, lasciavano intendere che l'uomo non doveva essere molto avvezzo a lavarsi.
Logher, il padrone della taverna, gli lanciò uno sguardo in tralice quando si avvicinò al bancone.
"Salutiamo" disse lo straniero con voce roca.
"Salute a te straniero" rispose Logher "cosa bevi?"
"Dammi un bicchiere di zibibbo"
"Eccoti servito. C'è cosa?"
Prima di rispondere, lo straniero portò il bicchiere alla bocca versandovi un lungo sorso della dolce bevanda liquorosa.
"Si, oste, c'è cosa. Intanto il tuo vino è buonissimo" posò il bicchiere pieno ancora per metà sul bancone e continuò "Vengo da Vaucchin e oggi ho visto qualcosa di strano sul Monte della Cava”
“Cosa hai visto di strano sul Monte della Cava?”
“Impronte”
“Impronte? Che vuol dire che hai visto delle impronte? Ci sono migliaia di animali su quella montagna e non è strano che tu abbia visto delle impronte. Bah, c'è gente strana in giro” concluse l'oste ridendo.
Lo straniero, impassibile, continuò:
“Il genere di impronte che ho visto non si trovano solitamente in queste lande. Uomo, io sono un cacciatore di orchi ed è l'impronta di un orco che ho visto in montagna”
L'interesse di Vathor fu catturato all'improvviso: era risaputo che gli orchi rapivano le donne e i bambini degli umani! Zittì l'oste che stava per rispondere allo straniero a cui si rivolse con cortesia:
“Mi dica di più sulle impronte che avete visto, straniero... c'erano altre... insomma, avete visto altro?”
Lo straniero osservò attentamente Vathor, forse pensando che non poteva essere stato un uomo a parlare con quella vocetta che si ritrovava. Sembrò valutare la possibilità di lasciar perdere quell'ometto insignificante, tuttavia rispose con garbo:
“Ho visto altro, si. Le impronte indicavano chiaramente che stava dirigendosi verso l'altro versante della montagna e che portava con sé un peso leggero: quaranta, forse cinquanta chili”
“Mia figlia!” esclamò Vathor “Poteva essere una ragazza?”
“Non so che dirle: avrebbe potuto essere anche un piccolo cervo o un lupo...”
“No, deve essere mia figlia... senta, non vi andrebbe di guadagnare trenta lire?” propose Vathor.
“Trenta lire? Chi devo ammazzare?” rispose lo straniero ridendo.
“No, non dovete ammazzare nessuno! Dovreste trovare le tracce dell'orco e portare indietro mia figlia... vi prego”
Lo straniero guardò Vathor con compassione. Era evidente che si sentiva attratto dalla promessa di pagamento, tuttavia si mostrò riluttante:
“Non so se ho voglia di tornare su quelle montagne. Se si tratta davvero di un orco potrebbe essere molto pericoloso...”
“Cinquanta lire” rispose interrompendolo Vathor.
“Beh... allora, messa così non si può rifiutare!”

Vathor attese al confine meridionale il ritorno dello straniero con la figlia rapita. Iniziò a piovere, ma Vathor non si mosse e fu sera e fu mattina.
Piovve tutto il giorno successivo: la moglie lo pregò di tornare a casa, di lasciare che gli eventi prendessero la loro piega, ma il pover'uomo non volle sentire ragioni. Mangiò un tozzo di pane e bevve due sorsi d'acqua e fu sera e fu mattina.
Smise di piovere e fu sera e fu mattina, ma Vathor ancora non si mosse. Era certo che lo straniero avrebbe riportato la figlia. Non gli importava più se viva o morta, voleva soltanto rivedere il volto d'angelo della sua bambina.
All'alba del terzo giorno comparve all'orizzonte un cavallo. Proveniva dalla pista del Monte della Cava.
“È lui! Ha riportato mia figlia!”
Vathor era felice come non mai, abbracciò la figlia spossata, la coprì col suo mantello, impaziente di sapere come erano andate le cose. Lo straniero, ferito alla testa, chiese di potersi riposare, prima di iniziare il racconto. Vathor lo ospitò, lo curò, gli diede da mangiare e da bere.
Il racconto che ne ottenne lo appagò totalmente, lo straniero aveva ritrovato le tracce dell'orco e le aveva seguite anche quando era cominciata la pioggia. Nonostante fossero via via sparite non si era arreso e, procedendo d'intuito, aveva trovato la grotta dell'orco. Il mostro sentendosi braccato era uscito per affrontarlo; aveva lottato a lungo senza però riuscire a ucciderlo, tuttavia lo aveva messo in fuga. Avrebbe voluto inseguirlo, disse, ma aveva preferito riportare la bimba dal padre prima di riprendere la caccia.
Quando ripartì con le cinquanta lire di compenso al sicuro dentro la sua borsa, uno strano sorriso era stampato sul volto dello straniero.
In città non lo videro mai più.

“Abbiamo fregato anche quegli stupidi, Krk. Ecco, tieni la tua parte”
“Grazie. Mrgh... sento che ti sei lavato. Puzzi da fare schifo!”
“Io puzzo? Fetente di un orco, a furia di frequentarti non so più cosa significa lavarmi per non offendere le tue delicate narici... grosso idiota, non hai idea di come sia rilassante stendersi in una vasca di acqua calda piena di sapone... aah, che goduria è stata!”
“Goduria? Brrr, mi vengono i brividi al solo pensiero... piuttosto, hai mangiato bene? Mi hai portato qualcosa di gustoso?”
“Tieni, ho un bellissimo zampone tutto per te... anche se preferirei cuocerlo e mangiarlo anch'io”
“Cuocerlo? Sei pazzo! Questo è ottimo così”
L'orco addentò lo zampone mentre Anthon, sorseggiando del buon vino di Baha'rya, descriveva con la sua voce roca il momento del ricongiungimento fra padre e figlia.

martedì 1 settembre 2009

Il Riparo della Rocca

Sul colle dei Quattro Artigli, con il sole alle spalle e lontano dalle sue guardie personali, Malkarth osservava la città assediata con espressione pensierosa e assorta.
L'anno precedente, arrivando da oriente, aveva visto per la prima volta Tharmaes, poggiata a mezza costa sul promontorio che la ospitava e l'aveva giudicata una facile preda.
Le difese della città si erano rivelate ostiche da superare: le alte mura, i molti bastioni difensivi e il grande porto avevano reso inefficaci i continui assalti.
Aveva allora devastato le campagne attorno alla città, quasi prosciugato il fiume Lònardos, costruito una flotta di cinquanta triremi per sconfiggere le navi dei tharmaesi, ma tutto si era rivelato inutile: gli erano giunte notizie di una fonte di acqua pura alle falde della Rocca. Dopo avere sconfitto gli avversari in battaglia, la sua poderosa flotta era stata distrutta da una terribile tempesta scatenatasi improvvisa durante il corso della battaglia.
Aveva fatto decapitare tutti i suoi aruspici per questo smacco e i tharmaesi continuavano a sfruttare le loro barche da pesca per sfamarsi e importare merci dalle non lontane Isole dei Venti.

Un fremito nell'aria e un brivido lungo la schiena gli annunciarono l'arrivo del suo consigliere.
Un piccolo turbine d'aria si sollevò alla sua sinistra, crescendo fino a raggiungere dimensioni umane. Prontamente, Malkarth si scostò di tre o quattro passi per non essere trascinato chissà dove dal vento che si sollevava, ma in pochi istanti il turbine cessò e con un piccolo tuono ed uno sbuffo di fumo grigio, Esman il Mago, il suo unico consigliere, era lì al suo fianco.
«Oh, Malkarth, sei qui?» chiese fingendosi sorpreso. «Certo che sei qui! Dove dovresti essere, oh grande condottiero degli Eubusi? I tuoi non hanno ancora trovato il modo di espugnare la città? Avete provato l'espediente degli Achei a Ilio? Sciocchi troiani... credere che dopo dieci anni di guerra si possa abbandonare il campo in questo modo! No, i tharmaesi non cadrebbero in quell'inganno, è troppo recente la distruzione di quella poderosa città perché qualcuno l'abbia dimenticato»
«Sto inziando a pensare che Tharmaes non cadrà mai con la forza, Esman» interloquì Malkarth «Non siamo riusciti a bloccarli per mare e le loro risorse sembrano non finire mai. Il grande condottiero qui davanti a te sta perdendo fiducia nei suoi mezzi, mago».
«Hai ragione a diffidare. Ho parlato con il mànteion di Zyz che mi ha aperto gli occhi. Tharmaes non cadrà né per forza, né per inganno, almeno finché l'Agkalen Omphalos sarà custodito nel Riparo della Rocca».
«Maledetto stregone, parli per enigmi: sai bene che non conosco l'ellenico! Per Eracle, spiegami cosa significa Agkalen Omphalos?».
Gli occhi penetranti del condottiero si fissarono sul volto del mago come per scrutarne i pensieri, ma l'espressione di Esman non cambiò affatto: con un sorriso sardonico sosteneva il fiero sguardo del guerriero.
«L'Agkalen Omphalos è la Pietra Sacra della Roccia Scavata. Fu posta nel Riparo della Rocca dalle ninfe che accudirono Eracle di ritorno dalla sua ennesima Fatica. Fu grazie ad essa che furono in grado di creare le terme per temprare i muscoli dell'eroe.
«Finché quella pietra rimarrà nel luogo in cui si trova, Tharmaes non potrà essere espugnata, perché protetta dalle ninfe e da loro padre Poseidone, il dio ellenico del mare e dei terremoti. Se la pietra verrà scalzata dal suo loculo da un eroe coraggioso, Poseidone inferocito scatenerà un terremoto che causerà una breccia nelle mura della città. A quel punto per i tuoi sarà uno scherzo entrare in città»
A Malkarth non sfuggì l'espressione beffarda negli occhi del suo unico consigliere e gli chiese:
«È da sei mesi che abbiamo la fortuna di averti fra noi, mago: per quale motivo mi stai mettendo al corrente soltanto oggi di questa pietra? E perché a scalzarla dovrebbe essere un eroe coraggioso e non un pastore o un mercante?»
Esman gli rispose con fare irritato, come se stesse parlando a un bambino poco sveglio:
«Nessun pastore avrebbe qualcosa da fare su quella parete rocciosa e ancora meno affari li avrebbe un mercante. Parlavo di un eroe perché in tendevo stimolarti, idiota! Inoltre, troppi uomini sono morti»
«Non mi dirai che adesso ti sta a cuore la sorte dei miei uomini, Esman? Ho imparato a conoscerti in questi mesi ed è l'unica cosa che non mi aspetto da uno come te!» lo derise Malkarth.
«Dei tuoi uomini non mi importa nulla, hai ragione» rispose freddamente in mago «La verità è che sta avvicinandosi la brutta stagione e non ho intenzione di svernare su questi colli: ho voglia di una casa di pietra e di un camino per riposare le mie vecchie e stanche ossa! Ad ogni modo, la ragione più importante per cui ti sto mettendo al corrente solo ora di questa Sacra Pietra potresti facilmente immaginarla, se solo lo volessi: ne sono venuto a conoscenza soltanto adesso e gli oracoli non si possono consultare con leggerezza. Ho dovuto attendere, prima di potermi recare sulle montagne di Zyz infestate dai Sicani. Nemmeno i thaermesi stessi conoscono l'esistenza della pietra».
Malkarth osservava il volto del mago e in cuor suo sentiva che doveva esserci dell'altro. Non poteva essere così semplice sconfiggere una città che gli resisteva da tanti mesi. Il Riparo della Rocca, una grotta scavata dagli Antichi sulle pendici nord-orientali del promontorio di Tharmaes, non sarebbe stato facile da raggiungere anche se non rientrava nella cerchia delle mura.
A questo pensiero, un nuovo dubbio assalì Malkarth:
«Mago, non ci sarà per caso un mostro a guardia della pietra? Anche se non parlo l'ellenico, so bene che le ninfe e gli Dei ellenici lasciano dei mostri a guardia dei loro tesori».
«Non mi starai dicendo che hai paura?» chiese Esman ridendo «Il grande condottiero Malkarth di Eubuso, conquistatore di Kephalodyon e di Mabbonath, figlio di Hadad il Grande, avrebbe paura di inoltrarsi in una grotta perché potrebbe trovarci un mostro? Sai che grasse risate si farebbero i tuoi uomini se venissero a sapere una storia del genere!»
Gli occhi di Malkarth si ridussero a due fessure infuocate. Le mani si chiusero a pugno e la tensione dei muscoli del corpo del guerriero era tale da far risultare evidente la sua voglia di saltare addosso al mago e strangolarlo con le sue mani.
Eppure si trattenne vedendone il sorriso: era ben consapevole di quanto sarebbe stato folle un gesto del genere. Aveva visto Esman uccidere un uomo senza nemmeno sfiorarlo: mormorando strane parole lo aveva fatto sanguinare dalle orecchie, dagli occhi e dal naso per poi lasciarlo morire fra atroci tormenti.
Non aveva la minima intenzione di porre fine alla sua vita così stupidamente.
Tuttavia, il mago aveva ragione: aveva paura, ma non poteva darlo a vedere agli altri capi tribù, avrebbe perso il loro rispetto. Doveva essere lui a prendere quella pietra sacra alle ninfe, non poteva mandare altri uomini dove lui non era disposto ad andare.

Malkarth pensò tutta la notte al modo di avvicinarsi al Riparo della Rocca senza farsi uccidere: dopo aver scartato diverse possibilità, concluse che avrebbero dovuto agire in pochi e nottetempo.
Convocò una consiglio di guerra. Raccontò ai capitribù dell'incontro col mago e ordinò di impegnare le difese cittadine a partire dal tramonto. Nel corso dell'attacco, con le forze tharmaesi impegnate nella battaglia, lui e un manipolo di soldati della sua guardia personale avrebbero tentato la scalata fino alla famigerata grotta.

Era una notte di luna crescente e Malkarth guidò dieci uomini fino alla foce del fiume Lònardos. La battaglia era iniziata e, anche se non poteva vederne le luci poiché si trovava settanta metri più in basso e l'intera rocca di Tharmaes si frapponeva fra lui e il suo esercito, ne sentiva il clamore.
Spostate le spade sulla schiena, il manipolo guidato da Malkarth iniziò la scalata fra rocce e arbusti spinosi.
A metà della salita raggiunsero un pianoro largo poco più di quaranta centimetri che si inerpicava zigzagando sulla rocca. Dopo una decina di metri divenne uno sentiero in mezzo agli alberi.
Avevano scelto bene il loro percorso: si trovavano in una sorta di anfiteatro sotto le mura e attraversandolo da una parte all'altra sarebbero arrivati a poche decine di metri dalla loro meta.
Alla fine del sentiero Malkarth fece fermare i suoi uomini: erano giunti all'apertura della grotta e, come aveva immaginato, non c'era nessuna guardia.
«Fermatevi qui.» ordinò ai suoi uomini «Entrerò io da solo. Aspettate qui il mio ritorno. Non fatevi scorgere, ma non fate avvicinare nessuno. Se all'alba non sarò tornato, tornate al campo e invece del mio corpo bruciate tutti i miei averi. Avrete tempo di ritentare l'impresa»
«Lascia che io venga con te, Sire» disse Nauba'al, il più forte e il più fidato dei suoi uomini.
«Non è necessario fratello. Ho con me la spada di mio padre e non temo nulla» rispose sguainando la lunga spada.
I suoi occhi erano bracieri e la decisione nel suo sguardo convinse Nauba'al che nulla l'avrebbe fermato quella notte, se non un intervento divino.

Malkarth non si era mai sentito tanto solo quanto nel muovere quei primi passi dentro la grotta.
Spada in pugno, dopo essere inciampato, si diede dello stupido: la fretta e la paura che lo attanagliava gli aveva fatto dimenticare un aspetto fondamentale. Rise fra sé e tornò sui suoi passi. Si ritenne fortunato perché con quel buio nessuno lo aveva visto fare quella magra figura.
Uscì e chiese ai suoi uomini una torcia. Nauba'al gliene porse una già accesa.
Senza fare un cenno e stavolta con un passo più deciso, si incamminò nella grotta, conscio di avere poco tempo, poiché i suoi uomini stavano morendo sotto le mura della città.
Si inoltrò nella grotta, evitando le rocce affioranti che sembrava volessero ghermirlo. Il pavimento era soffice sotto i suoi calzari, mentre il tetto della grotta si alzava per quattro o cinque metri. Illuminato dalla torcia, il terreno iniziò a degradare mentre il tetto sparì dalla vista come un velo di oscurità che si fosse posto sopra la sua testa.
Malkarth sentiva il proprio cuore battere troppo velocemente nel suo petto e allungò il respiro cercando di calmarsi. Sentiva di essere troppo nervoso.
Camminava nella grotta da almeno venti minuti quando la parete che aveva di fronte iniziò a restringersi, fino a ridursi ad una apertura sufficiente a mala pena per il passaggio di un uomo. Malkarth vi si fermò davanti ed ebbe la precisa sensazione di essere giunto alla sua meta.
Aggiustò la presa sulla spada e, portando avanti la torcia, si inoltrò nella fessura. Non appena la ebbe superata, gli si parò dinnanzi uno spettacolo inaspettato. Si trovava in una caverna circolare il cui diametro doveva superare i cinquanta metri. Rocce appuntite scendevano dall'alto, rocce appuntite salivano verso l'alto. A volte si incontravano a formare colonne traslucide alte quanto quattro uomini, tanto era alto il «soffitto». Le ombre create dalla luce della torcia danzavano fra il colonnato irregolare, creando a volte forme che sembravano umane.
Proprio al centro della caverna una di queste colonne aveva una forma diversa dalle altre: tutte le colonne erano più strette nella parte centrale, mentre la colonna centrale presentava un rigonfiamento più o meno a due metri di altezza.

Si avvicinò alla colonna e il rigonfiamento si rivelò per ciò che era: un uovo di pietra intagliato si teneva in equilibrio fra le due sottilissime punte di roccia. Era come se due pilastri, uno dall'alto, l'altro dal basso, fossero stati creati appositamente per sostenere la Pietra Sacra di Tharmaes. Malkarth non credeva ai suoi occhi.
«Allora è vero! Quel pazzo di uno stregone non mentiva» disse a sé stesso.
«No, non mentivo!»
La voce improvvisa fece trasalire Malkarth che si voltò brandendo la spada pronto ad attaccare l'assalitore. A pochi passi da lui c'era Esman.
«Non mentivo Malkarth. Quella pietra è la chiave di volta delle mura di Tharmaes. Come ti ho già detto, i cittadini non sanno della sua esistenza, appartiene ad un Altro Tempo, è un ricordo di un'epoca oramai finita»
Gli occhi di Malkarth corsero dal mago alla pietra per poi tornare a fissarsi sul «consigliere».
«Non ti chiederò perché mi hai seguito, Mago. Rinuncio a tentare di comprendere le tue motivazioni, ma dimmi quali sono le tue intenzioni adesso. Devi dirmi qualcos'altro prima che io butti giù quella pietra dal suo piedistallo?»
Il mago esplose in una risata che fece gelare il sangue nelle vene di Malkarth.
«Mi diverti, Eubuso» disse, «Mi spiace solamente che tu debba avere una sorte tanto triste. Vedi, anche se riuscissi a scalzare la pietra dalla colonna, saresti schiacciato sotto il peso delle rocce cadute. Sono qui per darti una possibilità, l'ultima: torna fuori e accetta la sconfitta, oppure resta qui sotto, scalza la pietra e muori con la certezza che i tuoi conquisteranno Tharmaes»
«Cosa? Dovrei scegliere tra la mia vita ed il mio onore? Sei pazzo mago!» pronunciando le ultime parole Malkarth si lanciò contro il mago lasciando partire un fendente che intendeva squarciargli il petto, ma il colpo andò a vuoto: il guerriero era passato attraverso il corpo di Esman come fosse fatto di aria.
La risata del mago echeggiò nella caverna.
«Mi credi davvero così stupido da espormi personalmente alla tua lama?»
Adesso Malkarth non vedeva più il mago chiaramente... i contorni erano sfocati e il suo corpo pareva evanescente.
«Che tu sia maledetto, Esman! Gli inferi saranno grati di avermi... e ti attenderò laggiù spada in pugno»
Detto questo, Malkarth si voltò nuovamente concentrandosi esclusivamente sulla Pietra Sacra.
Apparentemente Esman lo lasciò solo.
Mentre osservava la pietra, la sua mente fu oscurata dalla paura e dai ricordi di quante volte aveva rischiato la vita in battaglia. Non riusciva a credere che la sua esistenza stava per concludersi. Improvvisamente tutto gli fu chiaro: ringuainò la spada, si avvicinò alla pietra e la afferrò con entrambe le mani.
«Morirò per la gloria, mago maledetto. I miei uomini prenderanno Tharmaes e sarò ricordato come il condottiero mai sconfitto in battaglia, ucciso in una caverna da un sortilegio delle ninfe!»
Strattonò la pietra. Non riuscì subito a tirarla via. Tirò più forte. Ancora una volta.
Al quarto tentativo la pietra venne via.
Non perse tempo: si alzò, si voltò prendendo la torcia da terra e iniziò a correre, mentre il crepitio delle rocce si faceva sempre più forte.
Cadde, si rialzò e ricominciò a correre.
Si ferì sbattendo innumerevoli volte, ma il suo pensiero correva al mago e alla vendetta che pregustava qualora si fosse salvato.
Molte pietre gli caddero addosso, ma Malkarth non le sentì. Corse fino a perdere il fiato, sempre con il desiderio di vendetta.
Quando vide la luce, lasciò cadere la torcia e corse ancora più forte, anche se le forze lo abbandonavano, anche se tutto il mondo stava crollando attorno a lui. Ricordò il punto dov'era inciampato al suo primo ingresso nella grotta e scavalcò la roccia traditrice, tuffandosi fuori dalla grotta e ruzzolando per qualche metro, un istante prima che tutto rovinasse su di lui.
Respirò e, improvvisamente ebbe come un illuminazione: aveva compreso l'intento del mago!
Alzò gli occhi e vide i suoi uomini fissarlo increduli.
Nauba'al gli disse: «Il mago ci aveva detto che eri morto, ma non siamo andati via. Ti avremmo atteso all'infinito Malkarth il Grande»
«Dov'è andato lo stregone?» chiese.
«È andato via... avremmo dovuto trattenerlo?»
«Non importa» rispose Malkarth, che in cuor suo intendeva ringraziarlo per ciò che aveva fatto.
«Adesso non importa. Andiamo a prendere la città» ordinò ai suoi uomini.