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domenica 18 dicembre 2011

Un Nuovo Inizio

Seconda parte del racconto "Diario", presente su questo blog

Quel giorno Nino si alzò prima dell'alba. Non doveva accudire i cavalli, né controllare se questa volta i topi erano riusciti a penetrare nel magazzino delle granaglie. Quel giorno Nino doveva andare via. “Devi andare da tuo zio, nella tenuta di Santa Nicola” gli aveva detto suo padre “grazie a lui capirai”.
Si mise in cammino che il sole aveva appena fatto capolino da dietro le Madonie. La Città Alta stava svegliandosi e, con il sole alle spalle si allontanò di buon passo dalla sicurezza che questa rappresentava.
Ebbe la precisa sensazione di abbandonare una parte di sé e per un attimo, dal letto del fiume asciutto, voltandosi a guardare il suo passato, avvertì l'impulso di tornare.
Si fece forza, si voltò e riprese il cammino.
Santa Nicola distava circa due giri della Lunga del suo antico misuratore di tempo e ne raggiunse i confini che il sole non era ancora alto.
Inoltratosi nel vecchio borgo marinaro, lo stomaco gli si contrasse e si preparò all'ondata della visione. Sua sorella era lontana, probabilmente ancora stesa sul suo giaciglio, con i ciechi occhi rivolti verso l'alto. Anzi, la vide in quella sua posizione che ogni volta lo terrorizzava. Eppure, nonostante la distanza, riuscì a trasmettergli un brandello di futuro. Non durò che un battito di ciglia, ma gli parve di vivere una vita parallela.
Come sempre, seppe cosa fare.
Imbracciò la doppietta, che aveva ripulito e caricato la sera prima, si voltò di scatto facendo fuoco verso i due uomini che lo seguivano evidentemente armati di cattive intenzioni, oltre che di due affilatissime falci.
Iniziò a correre sguainando contemporaneamente la daga. Durante la corsa, proprio mentre superava il vecchio ufficio postale, balzò di lato giusto in tempo per schivare una freccia, che seguì con la coda dell'occhio fino al petto del ragazzino che gli puntava contro un fucile caricato con una fiocina. Questa gli sfiorò il braccio sinistro mentre ruotando su sé stesso infilzava allo stomaco l'arciere, che gli si era avvicinata brandendo un lungo coltello.
Si fermò: era completamente circondato dai folli abitanti di Santa Nicola. Aveva visto anche questo, ma non si preoccupò. Sapeva bene cosa stava per accadere.
Negli sguardi dei Santanicolesi Nino lesse la follia e la brama del suo sangue: a quali riti si abbandonava questa gente? Erano simili a quelli degli abitanti della Città Bassa?
Sentiva i rantoli dei morenti e il mormorio dei folli che gli si avvicinavano. Nino non abbandonò la posizione di guardia fino a quando non lo vide. Un istante dopo, una voce tonante, profonda e carica di una strana inflessione, ebbe il potere di fermare i Santanicolesi.
Anzi, proprio li “spense”.
«Ti aspettavo, zio» disse Nino.
«Lo so. Seguimi, non ti faranno più alcun male, adesso».
Nino si incamminò accanto al gigante dai capelli rossi, il Custode, come lo chiamava suo padre e insieme percorsero l'ultimo chilometro che li separava dalla vecchia casa.

Nino si era sistemato nella stanza che suo zio gli aveva assegnato, una mansarda dal pavimento e dal tetto in legno con un piccolo bagno. La stanza era pulita e perfettamente tenuta, riverniciata di fresco e odorosa di pulizia. Non ricordava di aver mai visto una stanza tanto pulita.
Erano arrivati da meno di un'ora e Nino vide lo zio salire nella sua stanza. Gli disse:
«Non muoverti da qui, oggi. Dovrò giustificare la tua presenza e ho un ospite da “accogliere”».
«D'accordo, zio» rispose Nino «ma...»
«Nessun “ma”, Nino. Ti verrà portato il pranzo, ma tu non devi assolutamente guardare chi te lo porterà. No, non sarò io a portartelo» continuò rispondendo alla tacita domanda del nipote, «Adesso devo andare, ho del lavoro da compiere».
Questi misteri incuriosirono il ragazzo oltre ogni misura, ma non osò disubbidire allo zio, quindi non si mosse dalla stanza e non guardò nemmeno la mano che poggiò il vassoio con il suo pranzo sul pavimento della stanza. Era una spigola cotta in forno sotto sale, con una ciotola di salmoriglio e mezzo litro di vino bianco freddo. In più c'era una nocepesca.
Gli era venuta una fame da lupi e si avventò sul pesce divorandolo in pochi minuti. Gli sembrò il pranzo più buono della sua vita.
Approfittò della forzata inattività per riflettere sul suo strano destino, domandandosi cosa gli avrebbe “fatto capire” lo zio Mimmo e perché mai suo padre, che solitamente era freddo come il ghiaccio, era così ansioso quando parlava del cognato.

«Cosa dovrebbe farmi capire questo scritto, zio?», chiese Nino perplesso.
«È un brano scritto da mio nonno, colui da cui hai preso il tuo nome, Antonino».
«Mmh... Ho atteso tanto a lungo per leggere un brano di narrativa? Continuo a non aver chiaro dove vuoi arrivare».
Nino aveva perso la pazienza. Suo zio gli aveva dato da leggere una cinquantina di pagine di un “romanzo”, come lo aveva chiamato, ma arrivato a un certo punto si era spazientito e aveva chiesto a Mimmo di potergli parlare. Non aveva intenzione di perdere ancora tempo a leggere quella prosa scadente e presuntuosa.
Anche se a scriverla era stato suo nonno.
«Il tuo bisnonno Nino raccontava storie. Con tua madre spesso sedevamo ai suoi piedi e ci leggeva favole e racconti che lui stesso aveva scritto. Ma sto parlando di molto, moltissimo tempo fa. Eravamo bambini, allora».
L'accenno a sua madre aveva catturato l'attenzione del ragazzo: non l'aveva mai conosciuta, poiché era morta dando alla luce lui e sua sorella. Mimmo continuò, e per qualche istante Nino ebbe l'impressione che la sua voce vacillasse, ma fu solo un istante.
«Quando era molto giovane, nel periodo in cui nacque tua nonna Elena, insieme ad altre nove persone, mio nonno Antonino scrisse un romanzo. Per l'occasione inventò un personaggio, tale Anton Valentijevic Sašarov, uno sciamano pazzo dedito al Culto degli Antichi», fece un cenno come per dire a Nino di tacere, che avrebbe avuto tutte le spiegazioni del caso di lì a poco, e continuò: «Nel romanzo questo sciamano aiutava una strana sacerdotessa ad evocare un Demone Maggiore, ma accadde qualcosa di strano. Chissà quali forze entrarono in gioco, chissà quali erano i piani della donna che aveva “creato” la sacerdotessa. Fatto sta che, nel momento in cui ne scrissero, tutti i protagonisti del romanzo presero Vita e divennero reali».
Nino era scioccato, non riusciva a credere alle sue orecchie: suo zio era impazzito del tutto, era andato fuori di testa, le Erinni avevano preso possesso della sua mente!
«Ma di cosa stai parlando? Come è possibile una cosa del genere? Non credere di potermi raccontare queste panzane solo perché ho diciassette anni! Capisco benissimo qual è la realtà e cos'è la finzione! A casa abbiamo centinaia di libri e...»
«Taci».
Quell'unica parola lo bloccò. Voleva continuare a parlare, ma gli mancò il fiato. Nella sua testa le parole si articolavano, ma non emetteva alcun suono. Una sensazione di soffocamento lo artigliò alla gola. Non riusciva a respirare e stava per farsi prendere dal panico.
«Respira», disse suo zio dopo un tempo che parve interminabile e Nino riprese a respirare affannosamente, come per recuperare il fiato perduto.
«Perdonami nipote, ma ne avevi bisogno». Il volto di Mimmo era serio e contrito.
«Perdonami tu» , disse Nino quando gli parve di poter parlare senza boccheggiare, «continua pure, zio».
Adesso iniziava a capire la paura che suo padre aveva di quell'uomo. Se poteva soffocare una persona soltanto proferendo una parola, cos'altro era in grado di fare?
Dopo qualche istante, Mimmo riprese a parlare:
«Ti sarai chiesto da cosa deriva il tuo potere di vedere brandelli di futuro, no? Ti sarai chiesto almeno una volta come fa tua sorella a mandarti visioni di ciò che accadrà proprio quando ti serve. Questo avviene perché stiamo vivendo un paradosso. Sašarov, lo sciamano creato dal nostro antenato, in gioventù viaggiò verso la Sicilia e mise incinta una giovane donna. Questa giovane donna era la bisnonna di mio nonno Antonino. Antonino stesso era un discendente della sua creatura, così come lo siamo noi».
«È assurdo» interloquì Nino con poca convinzione.
«Lo è, ma è anche la Verità. Durante la cerimonia di nozze, conosciuta come “Le Nozze d'Inverno”, celebrata da Sašarov e dalla sacerdotessa, il mondo fu cambiato e gli equilibri mutarono. Il mondo come lo conosciamo adesso è frutto di quella cerimonia. I miei poteri derivano da Sašarov, così come i vostri».
Nino era sconvolto. Come poteva essere? Il suo potere di “vedere” il futuro tramite gli occhi di sua sorella era un fatto assodato. Più volte, da bambini, gli aveva evitato rimproveri da suo padre. Da quando aveva ucciso il suo primo uomo, le visioni di ciò che sarebbe accaduto gli avevano salvato la vita diverse volte, durante gli scontri con i pazzi della Città Bassa.
Non poteva negare il suo potere.
«Cosa devo fare?», chiese Nino spaventato. Si era sentito pronto a ricevere delle spiegazioni, ma nulla gli aveva fatto presagire una cosa del genere. «Cosa significa tutto ciò? Non pensavo di vivere in un mondo tanto assurdo. Sapevo che doveva esserci qualcosa di strano, ma non lo immaginavo così».
Mimmo gli mise una mano sulla spalla.
«Devi allontanarti ancora. Il tuo Potere ha un solo punto debole, tua sorella. Sašarov aveva dei nemici potenti, nemici che adesso cercano la sua stirpe per eliminarla, poiché Egli è irraggiungibile. Tuttavia, se elimineranno i suoi discendenti acquisiranno abbastanza forza da essere in grado di colpirlo lì dove si trova. Questo significa che tua sorella è in pericolo. Devi andare lontano per evitare che i nostri nemici la colpiscano. Se le stai vicino, la metterai in pericolo. Se te ne allontani, sarai tu in pericolo, ma avrai il conforto delle visioni che ti invierà e potrai sfruttarle per difenderti. Purtroppo non so dirti se il Potere rimarrà intatto con la lontananza, ma devi rischiare».
«Tu non corri alcun rischio?», chiese Nino.
«No, finché rimango qui. In questo luogo non mi possono toccare, perché ne sono il Custode e i miei Poteri sono legati a questo luogo».
«Come andrò via? Impiegherò un'eternità di tempo ad allontanarmi a piedi e dovrò comunque passare dalla Città Alta, perché verso la Città Grande non si può andare».
«È vero. La Città Grande è preclusa a noi Esterni, ma non ho intenzione di farti andare via a piedi».
«E come?».
«Esistono delle Porte, Nino, delle Porte che conducono in luoghi lontani e che io sono in grado di aprire».

Era la prima volta che vedeva da vicino le tre donne. Sapeva che erano in casa, le aveva intraviste negli ultimi giorni, da quando cioè aveva avuto il permesso di muoversi liberamente per la tenuta.
Erano bellissime. Si somigliavano come delle gocce d'acqua, ma differivano per il colore dei loro capelli: una era mora, un'altra bionda e una rossa. Per il resto erano identiche.
Non parlavano, ma assistevano al rito dondolandosi lateralmente e mugugnando chissà quale strana litania.
Si trovavano nel piccolo giardino interno della casa, davanti a una grande roccia calcarea. Alcune piante crescevano dal terreno brullo, piante di una bellezza ancestrale e selvaggia.
Mimmo gli aveva spiegato che, una volta aperta, la Porta lo sarebbe rimasta per pochi secondi e non avrebbe dovuto esitare a entrarci, una volta che fosse stata libera.
«Cosa intendi per “libera”?», chiese Nino.
«Lo capirai», rispose lo zio.
Non capiva le parole della canzone che suo zio stava cantando, ma si rendeva conto che le  avrebbe ricordate per sempre.
«Cthulhu Ftangh! Ia! Shab ftor Nyarl! Ia! Ia! Yugh Shub Nigghttuf!»
Gli penetrarono nel cervello e lo stordirono.
Una noce vermiglia comparve improvvisamente sulla roccia e lentamente si avvolse a spirale su sé stessa, aumentando contemporaneamente di dimensioni. Prese a ruotare sempre più velocemente e in breve cambiò colore e si ingrandì fino a sfiorare la sommità della roccia, cinque metri più in alto.
Divenne viola, poi nera e, infine, assunse un colore azzurro sbiadito. Era come trovarsi davanti a uno specchio di acqua limpida, infatti prese a incresparsi come le onde del mare, mentre i suoi contorni si stabilizzavano e diventavano dorati.
La Porta era aperta e ne uscì un mostro orripilante: un'enorme bocca dotata di denti affilati come rasoi, venti occhi di fuoco sormontavano delle appendici vorticanti, corna possenti, un ventre che ribolliva distorcendosi e numerose braccia contorte dotate di artigli uncinati.
Accadde tutto molto velocemente.
Il mostro si avventò contro Mimmo, ma le donne, incredibilmente tramutatesi in mostri dotati di denti e artigli lo attaccarono ai fianchi e frontalmente.
La lotta fu cruenta.
Nino udì suo zio gridargli:
«IL SIGILLO È SPEZZATO! CORRI, NIPOTE, CORRI!»
Nino si lanciò in una corsa disperata, cercando di evitare i colpi del mostro. Si tuffò a testa in avanti dentro la porta dandosi del pazzo.
Atterrò sulla neve soffice rotolando e sguainando la spada. La doppietta nell'atterraggio gli colpì un ginocchio e una bretella dello zaino si ruppe, facendoglielo scivolare dal braccio sinistro.
Si girò più volte, ma non vide traccia né della porta, né tanto meno del mostro.
Era in una valle innevata, circondata da immense montagne. Un fiume ghiacciato “correva” a poche decine di passi da lui.
Mettiamoci in cammino”, pensò, e si incamminò seguendo il corso del fiume verso il fondovalle.

lunedì 14 settembre 2009

Diario

Ieri ho ucciso un uomo.
L'ho sorpreso a rubare della benzina dalle nostre scorte e mi ha assalito con il coltello. Ho reagito istintivamente tirando fuori la daga e conficcandogliela nello stomaco mentre con l'altra mano paravo il colpo che mi avrebbe accecato. Anche lui mi ha colpito, un taglio allo zigomo sinistro. Mi hanno ricucito con cinque punti.
Ieri ho ucciso un uomo.
È la prima volta che uccido un uomo. In quei pochi istanti non ho avuto il tempo di riflettere. Vedendolo correre verso di me con gli occhi spiritati e con il coltello in mano, il mio corpo ha reagito da solo, non era guidato dalla mia coscienza. Ho spostato il baricentro lateralmente, ho impattato il suo braccio quanto bastava per deviare il suo colpo e ho affondato la mia lama nel suo ventre. Non è morto immediatamente. Ho chiamato aiuto pochi istanti dopo e qualcuno è arrivato. Non hanno potuto fare molto. Lo avevo passato da parte a parte, probabilmente perforandogli lo stomaco e rompendogli un paio di costole. È morto dissanguato.
Ero sconvolto, terreo in volto, mi hanno detto. Non mi resi conto di ciò che era successo fino a quando non sono arrivato di fronte a mio padre, molti minuti dopo.
Il volto di mio padre sembrava fatto per ridere. Le sue labbra ridevano spesso, ma i suoi occhi non lo facevano mai. Nemmeno ieri.
Tornava da una spedizione, nel corso della quale avevano dato battaglia ai giovani teppisti della città bassa. Federico gli ha raccontato cosa era accaduto e mio padre si è complimentato con me, dicendo: «Hai compiuto il tuo dovere, Nino», ma i suoi occhi erano freddi.
Immagino che avrebbe voluto un futuro diverso per me e mia sorella.
Ho ricordi di quando ero bambino, di quando ancora il mondo non era andato avanti.
Io, mio padre, mia madre e mia sorella, seduti attorno alla nonna che ci leggeva le storie del nonno, l'uomo del quale porto il nome. Il nonno raccontava storie. Le aveva raccontate ai suoi figli sin da quando erano neonati e mia nonna le aveva conservate tutte. Ci leggeva le storie del nonno, storie di magia e storie di principesse guerriere, storie di mondi inesistenti che si facevano più veri del vero tramite la voce di mia nonna Daniela.
Ricordo mia zia e i miei cugini, quando andavamo tutti nella casa sul mare. Giocavamo fra le onde o nel giardino con gli animali. Fu lì che a sei anni trovai l'arco del nonno. Lo stesso arco che ancora oggi porto con me.
Da allora il mondo è andato avanti. E ieri ho ucciso un uomo.
Era vestito rozzamente: un paio di jeans sdruciti, una camicia a quadri di flanella, una giacca di lana marrone e un berretto con la visiera. Le sue scarpe erano bucate.
Accogliamo spesso i viandanti: diamo loro da mangiare, un tetto dove ripararsi dal freddo o dal caldo. Purché non ci chiedano di essere pagati. Purché non tocchino la nostra benzina o le nostre scorte.
Mio padre dice che in questi tempi difficili l'ospitalità è indispensabile: «Altrimenti diventeremmo come bestie», dice.
Anche a quest'uomo avevamo dato ospitalità. Poteva avere trent'anni ed era affamato. Magro e febbricitante. Gli avevamo preparato una zuppa di verdure con qualche pezzo di carne, gli avevamo dato una fetta di pane. Nottetempo si era accucciato in un angolo dell'androne, alla destra della testa in bassorilievo che mi faceva tanta paura quando ero piccolo.
Mio padre era partito qualche minuto prima dell'alba e l'uomo era rimasto fermo al suo posto, nonostante il trambusto dei cavalli. Avevo pensato che doveva essere molto stanco e lo avevo lasciato lì. Poi aveva tentato di rubare la benzina e io l'avevo fermato. Io l'avevo ucciso.

Sono rientrato in casa per fare colazione e un brivido mi percorre la schiena appena mi siedo a tavola. Mia sorella mi guarda con i suoi occhi verdi e mi fa vedere ciò che sta osservando: nelle nebbie del futuro è ben chiara la visione di tutto ciò che è già accaduto. Io ucciderò un uomo.
Come in un film, si dipana anche nei miei occhi ciò che è già accaduto in un possibile futuro. A quel punto so cosa farò.
Domani ucciderò quest'uomo. Quest'uomo in piedi davanti a me.
«Chi sei?» gli chiedo.
«Mi chiamo Benedetto» risponde «so che fate dono della vostra ospitalità»
È vestito in abiti dimessi: jeans sdruciti, camicia a quadri di flanella e giacca di lana marrone. Un berretto con la visiera
«Entra pure» gli dico «non neghiamo l'ospitalità a chi ce la chiede. Non tolleriamo però furti o altri comportamenti scorretti nei nostri confronti» gli sto dando una nuova possibilità.
«Grazie, davvero mille grazie» mi dice.
Il suo sguardo sfuggente mi da la conferma che stavo cercando: è lui.
Benedetto mangia al nostro desco. Benedetto dorme nell'androne. Benedetto aspetta che mio padre sia partito, prima di andare a scassinare la serratura che chiude il magazzino della benzina.
Adesso so: oggi ucciderò quest'uomo.