lunedì 28 novembre 2011

Sotto la Torre Normanna

Porgo un saluto caloroso a chiunque stia per leggere di questa mia strana avventura. Prego vorrete perdonarmi una doverosa premessa: non sono una persona impressionabile, né ho una fervida immaginazione. Ho cinquanta anni e di mestiere faccio il mercante di lana: il mio modo di essere mi porta a interessarmi alle cose pratiche piuttosto che alle elucubrazioni mentali. Di me dicono che sono pragmatico e calcolatore e che non riuscirei ad immaginare niente di diverso da ciò che ho davanti ai miei occhi. Non sono molto religioso, perché, come già detto, la mia mente si preoccupa d'altro. Diciamo che la domenica vado in chiesa a pregare per non far parlare di me, come del resto fanno quasi tutti i miei concittadini.
Mi chiamo Totò Guadamonte e quel fatidico giorno guidavo il mio carro verso la piana di Termini, poiché avevo da vendere certe coperte di lana alla fiera annuale che si teneva al porto. Non ero da solo, ma a difendermi c’erano i due fratelli Martorana a cavallo. Come al solito non portavo con me neanche un bastone, perché non ero uso a farlo, mentre i due Martorana avevano un fucile ciascuno e Peppe, il più grande, aveva anche un revolver.
Faceva caldo e non soffiava nemmeno un alito di vento. Avevamo superato Altavilla Milicia da circa dieci minuti ed era arrivato mezzogiorno: ai fratelli venne fame e ci fermammo a pranzare sotto un noce, al fresco. I Martorana mangiarono pane e formaggio, mentre io con me avevo del pane, delle cipolle e un paio di mele. Bevemmo un litro di vino bianco che avevo nel pozzetto del ghiaccio e riposammo per circa mezz’ora, prima di ripartire, verso la una.
I due Martorana fecero mangiare ai cavalli un po’ frumento, invece io non diedi nulla al bue che tirava il carro e nemmeno lo slegai: nonostante fossi partito presto la mattina eravamo ancora lontani e il carro pieno ci faceva andare fin troppo piano.
Circa quindici minuti dopo essere ripartiti, arrivammo su un colle dal quale di intravedeva la Torre Normanna a circa un chilometro a volo d'uccello. Non l’avevo mai vista così da vicino e neanche i due Martorana vi si erano avvicinati tanto. Tuttavia, conoscevano l’esistenza di una stradina che vi passava sotto lato monte e sapevano che era disabitata da secoli.
L’antica strada che stavamo percorrendo era piena di alberi e cespugli che rendevano difficile il viaggio, dunque procedevamo a rilento.
Poco prima delle due del pomeriggio, arrivammo sotto la torre e ci trovammo davanti una sorpresa: un uomo di circa quaranta anni, rosso di capelli e con una lunga barba fluente, alto più di un metro e novanta e dal torace ampio come quello di un cavallo, era fermo in mezzo alla strada sotto la torre appoggiato a una mazza di legno lunga almeno un metro e cinquanta.
“Salute a voi” disse.
“Buongiorno a lei” risposi. I Martorana lo guardarono sottecchi e non salutarono. L’uomo li fissò per un istante in malo modo, ma non disse loro nulla. Spostando lo sguardo su di me, disse:
“Chiunque passi da qui, deve pagare un pedaggio”. Il suo volto tranquillo emanava una strana ilarità.
“Non sapevo niente del pedaggio! Non ho soldi con me” risposi d'istinto.
L’uomo, senza mutare espressione, mi guardò, poi spostò lo sguardo sui due fratelli, prima su Sasà, il più piccolo, poi Peppe. I due non erano per niente tranquilli e avvertivo chiaramente il nervosismo dei loro cavalli. L’uomo disse:
“In pagamento mi basta uno dei vostri cavalli”.
“Cosa?” disse Sasà indispettito “Sei pazzo, vecchio? Non ci passa neanche per la minchia di darti un cavallo!” continuò, e armò il cane del fucile.
Io diventavo sempre più nervoso, mentre Peppe, dando man forte al fratello, disse:
“Proprio così. Spiegaci perché siamo noi che dobbiamo pagare il pedaggio? Noi siamo pagati per accompagnare il carro del nostro amico, qui” e puntò la lupara nella mia direzione. Io intuii che non era male intenzionato nei miei confronti e, per calmare gli animi, dissi rivolgendomi all’uomo:
“Mi ascolti! I miei amici hanno ragione! Perché dovrebbero pagare loro per le merci che porto io? Se proprio vuole un pagamento, prenda qualcosa dal mio carro!”
Guardandomi con un’espressione divertita, come non fosse uso a sentire parlare così tanto, mi rispose:
“Non mi servono le tue coperte. Io sono il Custode del Confine e sono io a stabilire cosa si debba pagare per passare al di là”. Osservò in tralice i Martorana: “Oggi ho deciso che voglio i due cavalli in pagamento e non uno soltanto” concluse.
“Cosa!?” dissi, chiedendomi come facesse a sapere che avevo delle coperte sul carro, ma non feci in tempo a dire altro, perché l’urlo di Sasà coprì la mia voce:
“Tu sei uscito pazzo!” disse mentre alzava il fucile pronto a sparare.
Non fece in tempo.
Muovendosi ad una velocità impressionante, l’uomo saltò alla sinistra di Sasà colpendolo alla nuca col grosso bastone. Riparato dal corpo di Sasà che cadeva da cavallo, gli prese il fucile dalle mani e sparò a Peppe colpendolo alla testa, mentre questo stava ancora girandosi per cercare di seguirne il movimento.
Rimasi di stucco! Nessuno poteva muoversi a quella velocità! Ma con chi avevamo a che fare?

“Li hai uccisi! Li hai uccisi come dei cani!” dissi non appena realizzai cosa era successo.
“Adesso ho due cavalli, due fucili e un revolver. Se mi avessero ascoltato, quei due, a quest’ora sarebbero ancora tra i vivi” mi rispose l’uomo. Continuò:
“Il mio nome è Mimmo. Seguimi” si voltò e cominciò a ridiscendere dal promontorio sul quale ci trovavamo, dirigendosi verso est.
Lo spettacolo che mi si parò davanti mi lasciò a bocca aperta. Un grande golfo si apriva sotto i miei occhi, con tanti piccoli promontori che separavano altrettante valli. Piccole spiagge di sabbia si intervallavano a alte scogliere e sullo sfondo, in lontananza, Mimmo mi indicò la linea del castello di Termini, che riposava sotto il Monte San Calogero, il primo di una serie di montagne che si innalzavano maestose e andavano a posarsi dolcemente sul mare.
Mimmo conduceva al passo i cavalli con i cadaveri dei Martorana coricati sopra e io, accorgendomi che non riuscivo più a controllare le mie reazioni, lo seguii conducendo il carro appresso a lui.
Ero terrorizzato. Avevo un terribile presentimento, ma non riuscivo a capacitarmi. Mentre facevamo strada, feci alcune domande a Mimmo:
“Mi tolga una curiosità. Perché voleva proprio i cavalli? E perché ha ucciso i miei amici? Non ce n’era alcun bisogno! Se proprio voleva un cavallo, avrei potuto portarne uno io sulla via del ritorno da Termini!”
Mimmo mi rispose senza neanche girarsi:
“Non saresti mai arrivato a Termini con quei due a farti da scorta. Superata questa zona, c'è Santa Nicola della Tonnara e, se foste stati particolarmente fortunati, vi avrebbero rubato cavalli, bue e coperte. Magari ti lasciavano il carro. Avreste fatto meglio a prendere la strada dei monti, salendo fino a Sant'Onofrio per poi scendere dal fiume San Leonardo.
“Quelle zone non le conosco affatto e non le conoscevano neanche i miei poveri amici”.
“E sareste voluti arrivare a Termini?”.
“Proprio così. Ma, mi dica: come faceva a sapere che trasporto delle coperte? E perché non ha ucciso anche me?”
“Tu mi servi per qualcosa di più importante. Delle tue coperte ho sentito l'odore. Ecco siamo arrivati”.
La discesa era finita e ci trovavamo davanti una casa che dava sul mare.
La casa s'affacciava sulla strada da un lato e sul mare dall'altro. Era circondata da mura bianche ricoperte da vite americana rampicante. Fiori ovunque. Alberi da frutto e non, tappezzavano il terreno attorno alla casa.
Tre donne uscirono dalla porta d'ingresso e mi guardarono simpaticamente. Mimmo disse loro di cominciare a preparare la cena. Mi condusse sotto una tettoia, mi diede una poltrona per sedermi e mi offrì del tabacco.
Caricata la mia pipa, gli chiesi:
“Mimmo, mi tolga una curiosità: per quanto ne so io, non ci sono confini tra Palermo e Termini. A che confine alludeva quando ha detto di essere il guardiano?”
“Come? Non l'hai ancora capito? Ovvio che parlavo del confine della mia proprietà. Qui non si avvicinano i poliziotti, né i soldati, perché qui comando io!”
L'arroganza di quelle parole mi colpì come un maglio e mi sentii troppo intimorito per proseguire la conversazione. Del resto, neanche Mimmo disse più nulla e passammo una mezz'ora in silenzio, prima che le donne ci chiamassero per andare a tavola.
Mangiammo pasta col sugo e le sarde, pesce alla griglia e sarde a beccafico, il tutto innaffiato da un bianco dal gusto raffinato. Per tutta la durata del pasto, le uniche voci che si sentirono furono quelle delle donne. Mimmo mi osservava portare ogni singolo boccone alle labbra e col suo sguardo m'inquietava.
Finito di mangiare, Mimmo mi prese a sé e un triste presentimento si fece strada nella mia mente.
“Vieni con me, Totò, è giunta l'ora”
“L'ora per cosa?” fu la mia istintiva domanda.
“L'ora del sacrificio!”
Mi prese l'angoscia, sapevo che Mimmo era infinitamente più veloce e più forte di me e non tentai nemmeno di fuggire: del resto, circondato da mura, dove speravo di andare?
Mi condusse su uno scoglio al quale si accedeva con una stretta passerella di legno. Mi legò a degli anelli fissi per terra. Mentre lo faceva, mi spiegava il motivo di tutto ciò:
“In questo tratto di terra sono tornati gli antichi dei. Qui non hanno potere né Geova, né Allah. Non ti salverà Gesù, né lo spirito del Buddha consolerà la tua anima. Qui comanda il Dio del mare. Ti sacrifico a lui perché continui a vegliare sulla nostra terra”.
Ero come instupidito, non mi muovevo, non facevo domande. Mimmo andò via e io attesi.
Un ribollire di onde lontano. Il mare, da calmo che era, iniziò ad agitarsi, le onde si fecero alte e iniziarono a frangersi sullo scoglio, riempiendomi di schizzi.
Inebetito fissavo il mare che, ad un trattò, sembrò ritirarsi. Un'onda enorme, come mai ne avevo viste nella mia seppur breve vita, si fece strada. Mi colpì in pieno un minuto dopo e mi trattennero dall'affogare solo le catene che mi legavano i polsi. In compenso fui sballottato avanti e indietro e il mare mi lasciò fradicio e bagnato proprio mentre l'ultimo chiarore del giorno lasciava il cielo.
Osservai sgomento la figura che mi si avvicinò dal mare. Non la vidi fino a che non fu a pochi metri da me: un essere indefinito, una mostruosità che non avevo mai immaginato neanche nei miei sogni peggiori. L'orrore mi travolse mentre il mostro allungava la mano per ghermirmi.
Urlai al contatto con le dita fredde e umide, ancora più fredde delle onde del mare.

Mi svegliai di soprassalto.
Mi ero appisolato appoggiato al noce dove avevamo pranzato. I fratelli Martorana preparavano i cavalli per ripartire. Peppe mi guardò e sorridendo mi disse:
“Totò, non ti volli svegliare prima, dormivi così bene! Però ora di andare è che si fece tardi”.
Mi alzai, ci rimettemmo in cammino. Mi sentivo a disagio: avevo sognato tutto? Vedemmo la torre, percorrendo il chilometro che ci separava da essa in silenzio. Giunti alla base della torre, un uomo, rosso di capelli con un grosso bastone in mano, ci fece segno di fermarci e disse, sorridendomi in maniera preoccupante:
“Buongiorno a voi, viaggiatori: per passare da qui, dovete pagare un pedaggio!”

giovedì 24 novembre 2011

Eekah - prima parte


I due ragazzi si muovevano velocemente, saltando da un ramo all'altro aiutandosi con tutte e quattro le mani. Viaggiavano leggeri, non avendo con sé armi pesanti o altri fardelli da portare, com'era tipico per quelli della loro età.
Giunti al fiume scesero a terra. Uno dei due era visibilmente titubante, poiché, come tutti quelli della sua specie nutriva un profondo terrore dell'acqua.
«Eccoci, Eekah. Come dovremmo fare a passare dall'altra parte? Il fiume scorre troppo impetuoso per i miei gusti e io non ho voglia di fare il bagno!».
Eekah lo guardò in tralice, giudicandolo probabilmente un codardo. Lui non temeva l'acqua, d'altronde era il figlio del Grande Krèmone e non poteva di certo permettersi paure di sorta, se voleva ereditare la guida della tribù.
«Dovremo trovare un modo, come feci io lo scorso sole pieno. Dovrò avere un testimone quando andrò a riferire al Consiglio ciò che ho visto, altrimenti non mi crederanno. Se vuoi, sei ancora in tempo per tornare indietro, Grjusuk, ma così dovrei chiedere a qualcun altro di accompagnarmi... magari a Leseksha».
«Una femmina? No, ti seguirò. Solo che ho una paura dannata di questo fiume, accidenti! E ti ripeto: come faremo a passare di là?»
È generoso”, pensò Eekah, “ma non sarà mai all'altezza di guidare una banda in battaglia. Pazienza”. Voleva bene al suo amico, ma si rendeva conto dei suoi limiti e in quel momento lo stava intralciando.
«L'ultima volta io l'ho attraversato a nuoto, ma non sarà necessario, questa volta. Vieni, ti mostro una cosa».
Lo guidò lungo la sponda, risalendo la corrente per un centinaio di metri, fino a dei giunchi. Lì aveva nascosto un tronco che aveva rozzamente scavato per farne una canoa.
«Non è granché, lo so, ma ci aiuterà a passare sull'acqua senza bagnarci! Ho visto degli umani che le usavano e filavano come il vento!».
Grjusuk non sembrava granché convinto della trovata dell'amico, ma non espresse i suoi dubbi, poiché non voleva nuovamente essere preso per codardo.
Spinsero la canoa in acqua e vi saltarono dentro. La corrente li trascinò verso il centro del fiume, poi iniziò a spingerli a valle. Soltanto allora si resero conto di aver commesso un errore grossolano: l'inesperienza sull'acqua della gente della foresta aveva fatto loro dimenticare uno strumento per governare la canoa! Erano in balia del fiume.
Eekah si sforzò di mantenere la calma e rassicurò il suo compagno, ammonendolo di non agitarsi troppo, che altrimenti avrebbe fatto rovesciare la barca.
Fortunatamente per loro la corrente non era forte e li condusse placidamente per diversi chilometri.
«Dove pensi che finiremo?», chiese Grjusuk quando si fu calmato un po'.
Eekah cercò di infondere ottimismo al suo compagno:
«Lasciami riflettere. Stiamo viaggiando veloci e gli alberi sulle sponde sono ancora molto fitti. La direzione è più o meno quella che avremmo dovuto seguire via terra, quindi penso che arriveremo lì dove volevo portarti... e anche più in fretta di quanto pensassi!».
«E come ci fermeremo?»
Temeva quel momento.
«Non pensavo di arrivare via fiume, ma sono stato un idiota a non pensare che avremmo avuto bisogno di un palo per governare la canoa. Ad ogni modo, affronteremo il problema quando si presenterà».
I due ragazzi si sentivano nudi, troppo esposti, su quella barca, senza la confortante protezione degli alberi sotto i quali erano sempre vissuti. Perfino Eekah iniziava a dare segni di nervosismo per tutta quell'acqua attorno a loro. Grjusuk a un certo punto non era più riuscito a trattenersi e, senza nemmeno sporgersi fuori, aveva vomitato la colazione del mattino e la cena del giorno prima.
Il fiume, fortunatamente, continuava a scorrere placido, ma l'ambiente iniziò a mutare. Una colonna di fumo in lontananza, il lento diradarsi degli alberi sulle sponde e l'odore acre che iniziarono a percepire con il loro potente olfatto, misero Eekah in allarme, mentre il povero Grjusuk stava tremendamente male e vomitava ancora.
«Dai, amico! A momenti dovremmo arrivare! Accidenti se viaggia veloce il fiume! A terra avremmo impiegato quasi tutto il giorno per arrivare, mentre a giudicare dal sole sarà appena passata l'ora del pasto meridiano».
Grjusuk, con uno sforzo ammirevole, finse interesse:
«Descrivimi cosa ci aspetta, Eekah»
«Umani. Decine di umani che ammassano i tronchi tagliati degli alberi della foresta. Poi un grande edificio dei loro, dove portano i tronchi con dei carri e dal quale esce un fumo scuro e fetido. Puoi già sentire l'odore. Il fumo è laggiù, vedi? Stanno facendo scempio della foresta, volevo parlare di questo al Consiglio.
«Il fiume si allargherà e forse riusciremo ad avvicinarci alla riva abbastanza da raggiungerla a nuoto. Una volta arrivati dovremo stare molto attenti. Non so cosa potrebbero farci gli Umani se ci trovassero».
«Lo sapevo che avrei finito per fare il bagno! Per gli dei, Eekah! Non vedi che sto male? Non credo proprio che riuscirò a nuotare».
«Certo che ce la farai! Altrimenti andrai giù... eccoci! Stai giù!».
La rozza canoa era infine giunta a un'ansa del fiume molto ampia, che curvava sulla sinistra. C'erano punti in cui l'acqua ristagnava e alcune secche. La canoa rallentò, avvicinandosi alla riva come aveva previsto Eekah.
«Ora! Tuffiamoci!» e si lanciò.
Al momento di gettarsi in acqua, però, il contraccolpo causato dal tuffo di Eekah sbilanciò Grjusuk, che cadde in acqua con un forte tonfo e un grido. Il rumore attirò l'attenzione degli uomini che lavoravano nei paraggi.
Eekah, confuso, cercò di aiutare l'amico e riuscì a tenergli la testa fuori dall'acqua. Poco a poco, nuotando raggiunse la riva, ma nel frattempo erano arrivati anche gli uomini, cui sentiva urlare frasi incomprensibili.
C'era solo una parola che ricorreva più spesso di altre e che Eekah riconosceva come offensiva nei loro confronti: “scimmie!”.
Senza tanti complimenti, diedero loro una botta in testa ciascuno e fu il buio.

lunedì 21 novembre 2011

La Bestia


Era calata la nebbia, improvvisa e silenziosa, e l'umidità iniziava a penetrare nelle ossa. Erano tutti abituati a muoversi senza fare il minimo rumore, eppure, in quell'ambiente fattosi spettrale, ogni singolo respiro, ogni passo, ogni fruscio dava l'impressione di un rombo di tuono alle orecchie di Jesànder. Alzò il pugno per fermare la colonna di fanti e il suo luogotenente, Driscoll, gli si avvicinò, ma non aprì bocca: sapeva che il Capitano stava concentrandosi per sfruttare l'udito acuto della sua gente.
Il sussurro con cui gli si rivolse lo fece trasalire, ma riuscì a comprendere appieno il significato: nel loro linguaggio di battaglia li avvertiva di prepararsi a uno scontro imminente con un imprecisato numero di nemici.
“Fegato”, fu portato di bocca in orecchio in pochi istanti lungo tutta la colonna: tanti piccoli bisbigli seguiti da altri caratteristici rumori indicarono a Driscoll che gli uomini si disponevano alla battaglia secondo lo schema adottato decine di volte in queste situazioni. Anche gli uomini sapevano che i koklapyani si facevano proteggere dalla nebbia per preparare le terribili imboscate con cui difendevano la loro terra: comparivano all'improvviso, uccidevano il maggior numero di nemici, davano fuoco ai carri con le vettovaglie e sparivano.
Spesso Driscoll si era domandato se valesse davvero la pena tenere fede all'ingaggio, se non sarebbe stato meglio per loro oltrepassare di nuovo le montagne e tornare a combattere a sud, tra le carovane e le sabbie roventi per qualche mercante di Asklepija. Ne aveva parlato spesso a Jesànder durante quella missione, ma da quell'orecchio sembrava non sentirci. Si diceva fosse stato stregato da quel Lord Aëshvèll quando aveva combattuto con lui a est e che poi lo avesse seguito dappertutto.
Certo, il Capitano era molto competente e la paga ottima, ma era sufficiente per affrontare una guerra come quella, in un a landa tanto ostile? Non c'erano città da saccheggiare, né bordelli da visitare.
Perso nei suoi pensieri, si rese contro che Jesànder aveva iniziato a parlare solo perché la condensa che usciva dalla sua bocca era aumentava considerevolmente. Aveva perso l'inizio della frase:
«... solo un falso allarme. Fermiamoci un po' qui, Driscoll. Con questa nebbia rischiamo di perdere la pista e, data l'ora, un luogo vale l'altro. Che non allentino la guardia. Però: che tengano indosso le corazze e le armi a portata di mano, intesi?»
«Sissignore, Capitano!». Si allontanò per dare gli ordini.
Driscoll si era distratto. Jesànder se n'era reso conto immediatamente, ne aveva sentito il respiro e i battiti del cuore avevano accelerato, non come quando ci si prepara a uno scontro, ma nel modo in cui fa quando si sogna a occhi aperti. Sicuramente pensava a qualche ragazza che aspettava i suoi regali in un bordello di Asklepija: come dargli torto? Li aveva trascinati in quella terra dagli dei estranei e crudeli, dove il meglio che potesse capitarti era la dissenteria nei grandi accampamenti, l'umidità della brughiera e con un nemico che rifuggiva gli scontri diretti.
Se avesse dovuto scommettere sui pensieri della compagnia, avrebbe certo puntato su qualcosa di simile a quello che aveva in mente Driscoll. Lo chiamò.
«Si Capitano»
«Ho preso una decisione: se tra una clessidra la nebbia non si sarà alzata ci rimetteremo in marcia», dall'ampio mantello di lana trasse fuori una piccola mappa. «Pista o meno, sappiamo che dobbiamo andare a nord-est per ricongiungerci al resto della truppa. Hai ancora con te quella bussola da tasca?»
«Sissignore. Ci tengo molto e la porto sempre addosso, specie da quando combattiamo in mezzo a questo... beh, come dire, a questo macello, Signore».
«Ottimo. Una clessidra, passa la voce e tieni la retroguardia».
Doveva sempre dare a quell'uomo qualcosa da fare: era un ottimo combattente, veloce, scaltro e soprattutto sobrio, ma non era capace di concentrazione. La sua mente, dopo pochi secondi di inattività, iniziava a vagare in chissà quali direzioni. Quel luogo e quella guerra lo stavano rendendo inaffidabile come luogotenente, forse doveva assegnarlo a una nuova mansione.
Un urlo nella sua testa spazzò via ogni pensiero:
«Allarmi!», urlò a sua volta.
Gli era già capitato in altre occasioni di sentire delle urla nella mente e ogni volta ne era seguito uno scontro. Anche quella volta fu così.
Sentì voci concitate, degli spari, Driscoll che ordinava di disporsi su due linee:
«Picche avanti, moschetti dietro, muovetevi!».
L'attacco viene dalla retroguardia. Quanti saranno?”, pensò Jesànder. Prese con sé dieci spadaccini e ordinò al sergente Umagh di tenere il fronte. Aggirò dalla destra la formazioni disposta da Driscoll, mentre i moschettieri aprivano il fuoco.
Il suo gruppo intercettò i nemici sul fianco e, giunti a pochi passi, scaricarono loro addosso le pistole, usandole poi come mazze con la mano libera dalla spada. I picchieri caricarono e lo scontro si concluse in pochi minuti. Gli assalitori erano pochi e male organizzati.
«Feriti, Driscoll?»
«Due, in modo leggero, possono marciare»
Jesànder assentì con il capo, ma le sue parole non erano soddisfatte:
«C'è qualcosa che non va, qualcosa di terribilmente sbagliato. Hai notato i loro occhi? Quegli uomini erano terrorizzati»
«Ho avuto la stessa impressione, Capitano. In effetti davano l'impressione di essere in fuga e di essersi imbattuti per caso nel nostro gruppo»
«Si, potrebbe essere. Ma da cosa fuggivano? Amici nostri o nemici? Chi o cosa è capace di infondere tanto terrore in un uomo? Ci sono troppe cose strane in questa terra e i loro stregoni hanno dei poteri che i nostri non comprendono.
«Muoviamoci, voglio allontanarmi il più in fretta possibile da questo luogo».
Si rimisero in marcia dopo aver prestato il primo soccorso ai feriti.
Jesànder si era convinto che la spiacevole sensazione provata quando aveva fatto fermare i suoi uomini era dovuta proprio allo scontro appena vinto. Si sforzava di non dare peso al formicolio che gli saliva lungo la spina dorsale fino a fargli rizzare i capelli sulla nuca. Lo interpretava come la tensione che seguiva la battaglia.
Ho proprio bisogno di riposo! Vorrei sapere cosa sta cercando Lord Aëshvéll in questa terra...”
Stavolta l'urlo nella sua mente fu tanto forte che fu costretto a fermarsi e tapparsi le orecchie, come se servisse a qualcosa. Fu Driscoll a dare l'ordine di fermarsi, ma non fece in tempo ad avvicinarsi al Capitano che tutta la colonna fu scossa da un terribile ruggito, seguito da urla e spari.
Jesànder e Driscoll udirono distintamente la voce del sergente Umagh finire l'ordine “Quadrato” con un urlo di dolore che gelò loro le ossa.
Si precipitarono in fondo alla colonna e ciò che videro li trovò del tutto impreparati. Occhi rossi e crudeli, zanne, artigli, corna e una folta peluria bruno-rossiccia. Una figura alta quasi tre metri circondata da un'aura rossastra. A una prima occhiata parve a Jesànder un incrocio tra un orso, una capra e un lupo. Terribile a vedersi incuteva una paura ancestrale e stava facendo strage dei suoi soldati, che cercavano di colpirlo con spade e fucili, ma non riuscivano a ferirlo, mentre venivano dilaniati e lanciati lontano.
«Un chàstar!», esclamò Driscoll.
«Cosa?»
«Un demone di roccia in forma animale. Mio nonno serviva un cacciatore di demoni e li chiamava chàstar. La descrizione corrisponde a questo mostro qui! Maledetto!».
Detto ciò si lanciò all'attacco, brandendo davanti a sé la lunga spada da combattimento.
Jesànder era stordito, incapace di muoversi. Aveva la netta sensazione che il demone cercasse proprio lui! Nel preciso istante in cui realizzò questo pensiero, sentì gli occhi del mostro piantarglisi addosso e nella sia mente ne udì la voce crudele “L'ho trovato!”.
Con noncuranza il chàstar si liberò degli uomini che gli stavano attorno e si lanciò alla carica. Durante la corsa travolse tutti coloro che lo fronteggiavano, con fragore di ossa fratturate e schizzi vermigli che volavano dappertutto.
Finalmente qualcosa in Jesànder si smosse: puntò la pistola e fece fuoco. Colpì il mostro ad un corno, che si spaccò rallentandone la corsa, ma non abbastanza. In pochi istanti gli fu addosso, ma Jesànder riuscì a schivarlo come faceva con i tori da ragazzo. Il riflesso condizionato dell'arena lo portò a ruotare il polso e colpire di punta la base della nuca del mostro, che correva piegato per trafiggerlo con le corna.
La durezza della pelle del mostro lo colpì come il contraccolpo sulla spalla, mentre il chàstar, ruotando a sua volta a una velocità impressionante, gli diede un manrovescio alla spalla sinistra lussandogliela e scagliandolo lontano.
Jesànder piombò a terra, con il braccio inerte sotto di sé.
Il demone lo sovrastò e il ghigno del mostro gli fece temere che era giunta la sua ora. Il chàstar levò le braccia unendo le mani a maglio, verosimilmente per frantumargli la testa, noncurante dei colpi che i suoi uomini cercavano di infliggergli.
Le braccia stavano iniziando il fatidico movimento, quando una freccia si piantò nel petto del mostro, scuotendolo e sorprendendolo.
Un battito di ciglia dopo un'altra freccia lo raggiunse a una spalla, seguita da una voce stentorea:
«Demone! Non porterai a termine la tua missione finché sarò in vita io! Prova soltanto a distogliere l'attenzione da me e ti ridurremo come un puntaspilli!», concluse ridendo.
Jesànder ebbe la forza di alzarsi a sedere e il terzetto che vide lo stupì non poco. Un uomo alto brandiva una lunga spada a due mani i foggia molto antica e due ragazzi imbracciavano due archi con le frecce incoccate. Avevano tutti lunghi capelli rosso-mogano e nella nebbia i loro occhi emanavano una strana luminosità.
Jesànder sentì nella sua mente la furia del chàstar, che caricò il terzetto senza pensarci su. I due ragazzi si dileguarono, mentre l'uomo rimase impassibile, alzando semplicemente la spada alta dietro la spalla destra.
La velocità della scena che seguì gli fece girare la testa: il mostro accelerò la propria corsa e l'uomo lo schivò con noncuranza proprio all'ultimo istante, calando al contempo la spada, che in un baluginare d'acciaio decapitò il mostro con quell'unico, micidiale fendente.
Il corpo del demone piombò a terra e l'uomo vi appoggiò sopra la punta della spada. In pochi secondi avvenne qualcosa di straordinario: una leggera brezza spazzò via sia il corpo del mostro che la nebbia, rivelando a Jesànder lo scempio fatto dal mostro alla sua compagnia. I tre si avvicinarono a Jesànder e lo aiutarono a rialzarsi.
«Eri tu il suo bersaglio», gli disse l'uomo.
«Si, l'avevo intuito... sono sconvolto... ma non vi ho ancora ringraziato per averci salvati!».
«Nessun ringraziamento ci è dovuto. Siamo giunti più tardi di quanto pensassimo. Seguivamo il chàstar da molti giorni, ormai. Eravamo nel Kanfôyl sono trenta ore fa».
«Siete arrivati fin qui dal Kanfôyl in meno di due giorni?».
«Viaggiamo veloci, quando vogliamo. Adesso dobbiamo lasciarvi. Siete stato coraggioso, ma né la vostra lama, né la vostra mente erano pronte per un avversario del genere e i vostri nemici lo sapevano bene».
«Aspettate! Prima di andare via ditemi almeno i vostri nomi!».
«Io mi chiamo Sashtÿr Nument-Ab, i due ragazzi sono Yënvël, mio figlio, e Keërn, mio nipote. Addio capitano Jesànder Mahlkawy».
«Hey, aspettato, come sapete il mio nome?».
Sashtÿr non rispose, ma si limitò a guardarlo con quegli strani occhi gialli. Si voltò e, seguito dai ragazzi, si allontanò a passo svelto. Jesànder era molto provato e troppo sconvolto per insistere ancora o per rendersi pienamente conto di ciò che era accaduto.
Un Driscoll pesto e sanguinante, ma senza ferite gravi, lo raggiunse.
«Ma chi diamine erano quelli?».
«Cacciatori di demoni, suppongo. Hai notato i loro occhi? Erano dei Vaunlay».
«Vau-che?»
«Vaunlay. Sono una nuova razza del mondo, figli di un Umano e una Laynorë».
«C'è gente che si accoppia con quelle streghe?».
«Alcune di loro hanno molto fascino. Posso comprendere come ci siano uomini che deciderano giacere con loro. Dimmi qual è la situazione».
«Ventisei morti, quaranta feriti, dei quali la metà non passerà la notte. Gli altri feriti possono camminare. Poi ci siete voi con un braccio rotto. Quelli che non hanno ferite sono comunque pesti più o meno come me».
Jesànder trattenne una smorfia di dolore. Con un sospiro diede i suoi ordini:
«Segneremo i nomi dei morti. Le loro paghe andranno alle famiglie. Li copriremo con dei massi, in attesa di poter venire a recuperarli con mezzi più adeguati. Finito il lavoro ci riposeremo e ci rimetteremo in cammino domani. Voi che non siete feriti ci precederete al forte e tornerete a prenderci con dei carri.
«Speriamo che nel frattempo non ci attacchi nessun altro!».
Si sforzò di fare una risata, ma non ci riuscì. Era troppo provato dagli eventi di quell'ultima mezz'ora.
Driscoll lo lasciò alle cure dell'ufficiale medico, miracolosamente illeso.
Jesànder avrebbe avuto molte cose su cui riflettere durante i prossimi giorni e molte domande da porre a Lord Aëshvéll al suo ritorno dal Kanfôyl.
Al momento, però, doveva rincuorare i suoi uomini. Non avrebbe detto loro che il chàstar cercava lui. Era stata un'esperienza già abbastanza sconvolgente, senza bisogno di sapere che l'uomo che ti guida è diventato bersaglio di forze oscure. Era una cosa che avrebbe dovuto affrontare da solo.

domenica 20 novembre 2011

Un nuovo racconto

A breve su queste pagine pubblicherò un nuovo racconto, che in effetti non ha molto di nuovo: si tratta di una riscrittura di un racconto di sei o sette anni fa. È solo una parte di qualcosa di molto più lungo, anche se può essere letto come racconto indipendente.
Il protagonista è uno dei miei personaggi più vecchi ed è qui che fece la sua prima comparsa Yënvël, che qualcuno di voi avrà già sentito nominare!
A presto!