lunedì 9 luglio 2012

Kaijl - Il cacciatore di taglie


Era una cittadina squallida e puzzolente. Dalle fogne salivano fumi maleodoranti che stordivano a primo impatto, eppure il cacciatore di taglie era sicuro di trovare la sua preda proprio nella città portuale più importante dell’Isola di Goigurjan: Terja, dove non c’erano le strade pulite o i parchi odorosi della Città Verde, Lynelvas. Terja, covo di puttane e protettori, di contrabbandieri e di uomini che sono ciò che di più ripugnante può creare la società. Continue risse tra uomini ubriachi, omicidi, anche solo per un tozzo di pane.
No, non era una città che si lasciava vivere facilmente, ma Taruk Ab Synijc era abituato a tutto ciò, perché aveva vissuto lì i suoi primi trent’anni.
A quarantotto anni, Taruk era il cacciatore di taglie più temuto dai criminali: l’uomo che aveva trovato Perduryn, il più ricercato assassino del sud, e ne aveva consegnato la testa al capo della milizia di Cinyth, tre anni prima. L’uomo che aveva scovato e ucciso spietatamente qualsiasi preda meritasse la sua considerazione. Negli ultimi dodici anni aveva catturato più di cinquanta uomini che gli avevano fatto guadagnare un bel mucchio di soldi.
Le ultime tracce che aveva trovato presso le rovine di Gerejan, lo avevano convinto che, dall’interno dell’isola, la sua preda si era spostata nella città portuale. Quel bastardo lo faceva girare da più di quattro mesi, ma quello che lo faceva imbestialire, era la capacità che aveva di sfuggirgli sempre, quando invece sembrava che stesse per prenderlo! Era come se riuscisse a prevedere quando lui bivaccava, quando procedeva più velocemente o quando chiedeva informazioni. Alla domanda se avessero visto un uomo corrispondente alla descrizione che lui forniva, la risposta era sempre la stessa:
«Si, mi sembra di averlo visto… ieri o al massimo ieri l’altro»
Lo faceva proprio arrabbiare e, più si arrabbiava, più diventava pericoloso. Una settimana prima, ad esempio, aveva rotto il naso ad un cameriere che gli aveva versato un goccio di vino sul mantello.
Quando ti troverò, stramaledetto Kaijl” pensava “ti strapperò la pelle pezzo per pezzo e mangerò il tuo cuore mentre ancora sei vivo!”
Sapeva essere molto crudele, quando voleva.
La prima persona cui chiedeva informazioni, quando arrivava in una città, era il fabbro. Arrivato alla “Bottega di Kyrvayn”, si avvicinò al ragazzo piccolo e magro che tentava di molare un coltello per scuoiare, e gli chiese:
«Salve uomo. Sei tu Kyrvayn?»
Il ragazzo, vedendosi davanti un gigante come Taruk, con quella faccia da serpe e la lunga cicatrice che scendeva dal centro della fronte fino a metà guancia, sfiorandogli il naso, ne fu terrorizzato e rispose, non senza un certo impaccio:
«S- salve signore! No, non… non sono io Kyrvayn, il padrone è sul retro, ma se vuole lo chiamo!»
«Non è necessario, e non tremare come una foglia perché mi rendi nervoso»
Kreduun, così si chiamava il giovane, cercò di calmarsi e pronunciò in tono dimesso:
«Si, signore. Come posso aiutarla?»
«Così va meglio pivello! Su fatti coraggio» e rise. Poi continuò:
«Sai, dovresti dare aiuto a questo mio pugnale, dandogli una bella molatura e facendo tornare il filo della lama come nuovo. Ma non ti azzardare a rovinare la lama! Altrimenti sarai il primo a sperimentarla!»
«Certo signore, voglio dire… no signore!»
Taruk entrò nella bottega guardandosi intorno, sperando che l’assassino non fosse ancora ripartito. Ad un tratto gli s’illuminarono gli occhi! Aveva visto una pesante ascia poggiata sulla rastrelliera delle armi da affilare:
«Ti ho trovato, finalmente!» disse ad alta voce, senza curarsi dello sguardo interrogativo del giovane apprendista fabbro.

mercoledì 21 dicembre 2011

Eekah - quarta parte


La porzione di cielo che potevano vedere era sgombra da nubi, la folla urlante sugli spalti era composta da uomini e donne eccitati dall'imminente spargimento di sangue e dalla terra battuta dell'arena si alzavano nuvolette di polvere a ogni passo dei krèmoni e degli animali.
Questi ultimi sembravano conoscere alla perfezione il copione, infatti si allargarono a ventaglio, avvicinandosi lentamente e inesorabilmente ai sbigottiti krèmoni.
Sathûke ordinò ad alta voce di stare fermi:
«Non separiamoci! Se stiamo uniti saremo più forti e avremo più possibilità di sopravvivere!».
Un ragazzo, tuttavia, si fece prendere dal panico e si mise a correre urlando, cercando di passare in mezzo a due leoni, sperando evidentemente di cavarsela, ma le due bestie gli furono addosso in un istante.
Le urla del giovane cessarono quasi subito e i due animali iniziarono a cibarsi della sua carne.
A quel punto Eekah notò che fra gli animali, un po' più indietro rispetto agli altri, c'era una tagarÿ.
Forse abbiamo una speranza!”, pensò.
Frattanto Grjusuk aveva attirato l'attenzione di Sathûke:
«Hei! Qui dietro ci sono delle armi!», disse indicando una rastrelliera e prendendo una lunga lancia.
«Ecco perché gli animali esitano! Armiamoci tutti, svelti!»
in pochi secondi tutti i krèmoni avevano un'arma, chi una lancia, chi un'ascia. Si misero in guardia, tutti tranne Eekah.
«Che fai ragazzo?», chiese Sathûke sorpreso.
Eekah avanzava lentamente, tenendo la sua lancia con la punta verso il basso. Si muoveva verso gli animali, che ringhiavano feroci, quasi sorpresi dai movimenti lenti e apparentemente senza timore del giovane krèmone.
Alzò la mano libera, con le dita aperte e rivolse il suo sguardo alla tagarÿ. Disse ad alta voce:
«Non l'ho mai fatto prima! Sathûke, Grjusuk, copritemi mentre cerco di entrare nella mente della tagarÿ, proverò a convincerla ad aiutarci!».
Come fosse stato un segnale, gli animali attaccarono, tutti tranne la tagarÿ.
I krèmoni si difesero e difesero Eekah come un solo corpo. Grazie alla guida di Sathûke e grazie alla loro innata agilità, riuscivano a evitare i lenti attacchi dell'orso nero. Con le armi riuscivano a rintuzzare gli assalti dei leoni, mentre Eekah, concentratissimo, continuava ad avvicinarsi alla tagarÿ, che rimaneva immobile come fosse stregata.
«Pensi che ce la farà?», chiese Sathûke a Grjusuk allontanando un leone con un affondo.
«Se c'è qualcuno che può farlo è lui!», rispose il giovane, «È figlio del Grande Krèmone, lo Spirito della Foresta è potente in lui!».
«Figlio del Grande Krèmone! Per gli dei!».
Lo scontro continuò furioso. Un leone e tre krèmoni erano morti, quando un grido di stupore si levo dagli spalti.
Eekah era balzato in groppa alla tagarÿ e, reggendosi con le braccia inferiori urlò levando la lancia al cielo. Il grosso felino a sei zampe ruggì ferocemente, mentre gli altri animali interruppero l'attacco.
Eekah urlò ai suoi compagni: «Attaccateli adesso! Io andrò loro addosso con la tagarÿ!», e, detto ciò, mandò l'animale all'attacco, lanciandolo sull'orso.
Il combattimento si risolse entro pochi minuti, dopodiché Eekah scese dalla tagarÿ, ringraziandola a bassa voce e tenendola tranquilla mentre i suoi compagni gli si avvicinavano.
«Come hai fatto?», chiese uno stupito Sathûke, ma Eekah non ebbe il tempo di rispondere, poiché dalle dieci porte dell'arena entrarono un centinaio di arcieri che incoccarono le frecce nei loro lunghi archi.
Eekah balzò in groppa alla tagarÿ e i suoi compagni si misero in posizione di combattimento con Sathûke che urlava di tenersi pronti.
Dai ranghi degli arcieri venne lentamente fuori un uomo eccezionalmente alto dalla pelle nera come il carbone. I lunghi capelli lisci erano tenuti fermi da un diadema dorato e ricadevano su una ricca armatura smaltata. Appesa alla cintura portava una lunga spada da combattimento.
Si fermò a circa dieci metri dai krèmoni e alzò le braccia. Gli spettatori smisero immediatamente di rumoreggiare.
Con voce stentorea, l'uomo iniziò un lungo discorso, del quale Eekah riuscì a comprendere anche questa volta qualche parola isolata. Quando terminò, il pubblico rispose con un'acclamazione.
L'uomo si voltò verso i krèmoni e in perfetto Krèmysh disse:
«Oggi avete combattuto bene. Ci avete stupiti: mai nessuno era riuscito ad addomesticare una delle nostre belve. Nel prossimo combattimento la tigre a sei zampe sarà al vostro fianco, se lo desiderate. Adesso, però, deponete le armi e recatevi negli alloggi che vi saranno assegnati. Vi sarà dato da mangiare e da bere, avrete a disposizione letti comodi e tempo per allenarvi. Dopo l'Eclisse di Nebbioso, fra otto giorni, avrete un nuovo combattimento e vi saranno fornite armi migliori».
I krèmoni si guardarono dubbiosi l'uno con l'altro, poi con un cenno, Sathûke fece intendere a Eekah che poteva parlare per tutti loro con l'uomo. Il giovane, senza muoversi dalla groppa della tagarÿ, disse:
«Chi ci garantisce che non ci ucciderete appena avremo deposto le armi?»
«Potrei farvi uccidere anche se le impugnate le armi», rispose l'uomo.
«Già, ma voi sareste il primo a morire. La tagarÿ con un balzo può raggiungervi a questa distanza, lo sapete bene»
«Dallo per scontato. Continua»
«So di parlare anche a nome dei miei compagni dicendo che preferiamo morire con le armi in pugno, piuttosto che essere uccisi a tradimento, oppure tornare a subire le privazioni degli ultimi giorni».
L'uomo non mosse un muscolo e la sua espressione non era cambiata. Rispose lentamente, soppesando le parole:
«Voi siete il primo gruppo di Krèmŝ che sopravvive a uno scontro nell'arena. Vedete gli spalti? Sono pieni di gente che paga per vedere scorrere il sangue. Il vostro o dei vostri avversari. A questo punto è nel mio interesse che voi rimaniate vivi e in salute, poiché grazie alla vittoria di oggi, al vostro prossimo scontro aumenterò il mio guadagno. Adesso però dovete deporre le armi e uscire dall'arena. Ci sono altri combattimenti in programma per oggi».
Qualcosa nelle parole dell'uomo convinse Eekah, poi assentì. Scese dalla tagarÿ e poggiò la lancia per terra, seguito da tutti gli altri.
Eekah disse all'orecchio della tagarÿ di lasciarsi condurre nei suoi alloggi e la bestia, guardandolo con i suoi occhi verdi fece cenno di aver capito.
Una grande saracinesca si alzò alle loro spalle e, senza voltarsi, gli otto krèmoni superstiti ne oltrepassarono la soglia.
Avevano tanto di cui discutere, ma al momento rimandarono, poiché come aveva detto l'uomo nell'arena, trovarono degli attendenti che li condussero a una sala con un tavolo apparecchiato, colmo di cibo e bevande.
Si sedettero e iniziarono a mangiare con appetito. Non appena ebbero terminato il pasto, Sathûke disse:
«Adesso puoi spiegarci come hai fatto, Eekah».

domenica 18 dicembre 2011

Un Nuovo Inizio

Seconda parte del racconto "Diario", presente su questo blog

Quel giorno Nino si alzò prima dell'alba. Non doveva accudire i cavalli, né controllare se questa volta i topi erano riusciti a penetrare nel magazzino delle granaglie. Quel giorno Nino doveva andare via. “Devi andare da tuo zio, nella tenuta di Santa Nicola” gli aveva detto suo padre “grazie a lui capirai”.
Si mise in cammino che il sole aveva appena fatto capolino da dietro le Madonie. La Città Alta stava svegliandosi e, con il sole alle spalle si allontanò di buon passo dalla sicurezza che questa rappresentava.
Ebbe la precisa sensazione di abbandonare una parte di sé e per un attimo, dal letto del fiume asciutto, voltandosi a guardare il suo passato, avvertì l'impulso di tornare.
Si fece forza, si voltò e riprese il cammino.
Santa Nicola distava circa due giri della Lunga del suo antico misuratore di tempo e ne raggiunse i confini che il sole non era ancora alto.
Inoltratosi nel vecchio borgo marinaro, lo stomaco gli si contrasse e si preparò all'ondata della visione. Sua sorella era lontana, probabilmente ancora stesa sul suo giaciglio, con i ciechi occhi rivolti verso l'alto. Anzi, la vide in quella sua posizione che ogni volta lo terrorizzava. Eppure, nonostante la distanza, riuscì a trasmettergli un brandello di futuro. Non durò che un battito di ciglia, ma gli parve di vivere una vita parallela.
Come sempre, seppe cosa fare.
Imbracciò la doppietta, che aveva ripulito e caricato la sera prima, si voltò di scatto facendo fuoco verso i due uomini che lo seguivano evidentemente armati di cattive intenzioni, oltre che di due affilatissime falci.
Iniziò a correre sguainando contemporaneamente la daga. Durante la corsa, proprio mentre superava il vecchio ufficio postale, balzò di lato giusto in tempo per schivare una freccia, che seguì con la coda dell'occhio fino al petto del ragazzino che gli puntava contro un fucile caricato con una fiocina. Questa gli sfiorò il braccio sinistro mentre ruotando su sé stesso infilzava allo stomaco l'arciere, che gli si era avvicinata brandendo un lungo coltello.
Si fermò: era completamente circondato dai folli abitanti di Santa Nicola. Aveva visto anche questo, ma non si preoccupò. Sapeva bene cosa stava per accadere.
Negli sguardi dei Santanicolesi Nino lesse la follia e la brama del suo sangue: a quali riti si abbandonava questa gente? Erano simili a quelli degli abitanti della Città Bassa?
Sentiva i rantoli dei morenti e il mormorio dei folli che gli si avvicinavano. Nino non abbandonò la posizione di guardia fino a quando non lo vide. Un istante dopo, una voce tonante, profonda e carica di una strana inflessione, ebbe il potere di fermare i Santanicolesi.
Anzi, proprio li “spense”.
«Ti aspettavo, zio» disse Nino.
«Lo so. Seguimi, non ti faranno più alcun male, adesso».
Nino si incamminò accanto al gigante dai capelli rossi, il Custode, come lo chiamava suo padre e insieme percorsero l'ultimo chilometro che li separava dalla vecchia casa.

Nino si era sistemato nella stanza che suo zio gli aveva assegnato, una mansarda dal pavimento e dal tetto in legno con un piccolo bagno. La stanza era pulita e perfettamente tenuta, riverniciata di fresco e odorosa di pulizia. Non ricordava di aver mai visto una stanza tanto pulita.
Erano arrivati da meno di un'ora e Nino vide lo zio salire nella sua stanza. Gli disse:
«Non muoverti da qui, oggi. Dovrò giustificare la tua presenza e ho un ospite da “accogliere”».
«D'accordo, zio» rispose Nino «ma...»
«Nessun “ma”, Nino. Ti verrà portato il pranzo, ma tu non devi assolutamente guardare chi te lo porterà. No, non sarò io a portartelo» continuò rispondendo alla tacita domanda del nipote, «Adesso devo andare, ho del lavoro da compiere».
Questi misteri incuriosirono il ragazzo oltre ogni misura, ma non osò disubbidire allo zio, quindi non si mosse dalla stanza e non guardò nemmeno la mano che poggiò il vassoio con il suo pranzo sul pavimento della stanza. Era una spigola cotta in forno sotto sale, con una ciotola di salmoriglio e mezzo litro di vino bianco freddo. In più c'era una nocepesca.
Gli era venuta una fame da lupi e si avventò sul pesce divorandolo in pochi minuti. Gli sembrò il pranzo più buono della sua vita.
Approfittò della forzata inattività per riflettere sul suo strano destino, domandandosi cosa gli avrebbe “fatto capire” lo zio Mimmo e perché mai suo padre, che solitamente era freddo come il ghiaccio, era così ansioso quando parlava del cognato.

«Cosa dovrebbe farmi capire questo scritto, zio?», chiese Nino perplesso.
«È un brano scritto da mio nonno, colui da cui hai preso il tuo nome, Antonino».
«Mmh... Ho atteso tanto a lungo per leggere un brano di narrativa? Continuo a non aver chiaro dove vuoi arrivare».
Nino aveva perso la pazienza. Suo zio gli aveva dato da leggere una cinquantina di pagine di un “romanzo”, come lo aveva chiamato, ma arrivato a un certo punto si era spazientito e aveva chiesto a Mimmo di potergli parlare. Non aveva intenzione di perdere ancora tempo a leggere quella prosa scadente e presuntuosa.
Anche se a scriverla era stato suo nonno.
«Il tuo bisnonno Nino raccontava storie. Con tua madre spesso sedevamo ai suoi piedi e ci leggeva favole e racconti che lui stesso aveva scritto. Ma sto parlando di molto, moltissimo tempo fa. Eravamo bambini, allora».
L'accenno a sua madre aveva catturato l'attenzione del ragazzo: non l'aveva mai conosciuta, poiché era morta dando alla luce lui e sua sorella. Mimmo continuò, e per qualche istante Nino ebbe l'impressione che la sua voce vacillasse, ma fu solo un istante.
«Quando era molto giovane, nel periodo in cui nacque tua nonna Elena, insieme ad altre nove persone, mio nonno Antonino scrisse un romanzo. Per l'occasione inventò un personaggio, tale Anton Valentijevic Sašarov, uno sciamano pazzo dedito al Culto degli Antichi», fece un cenno come per dire a Nino di tacere, che avrebbe avuto tutte le spiegazioni del caso di lì a poco, e continuò: «Nel romanzo questo sciamano aiutava una strana sacerdotessa ad evocare un Demone Maggiore, ma accadde qualcosa di strano. Chissà quali forze entrarono in gioco, chissà quali erano i piani della donna che aveva “creato” la sacerdotessa. Fatto sta che, nel momento in cui ne scrissero, tutti i protagonisti del romanzo presero Vita e divennero reali».
Nino era scioccato, non riusciva a credere alle sue orecchie: suo zio era impazzito del tutto, era andato fuori di testa, le Erinni avevano preso possesso della sua mente!
«Ma di cosa stai parlando? Come è possibile una cosa del genere? Non credere di potermi raccontare queste panzane solo perché ho diciassette anni! Capisco benissimo qual è la realtà e cos'è la finzione! A casa abbiamo centinaia di libri e...»
«Taci».
Quell'unica parola lo bloccò. Voleva continuare a parlare, ma gli mancò il fiato. Nella sua testa le parole si articolavano, ma non emetteva alcun suono. Una sensazione di soffocamento lo artigliò alla gola. Non riusciva a respirare e stava per farsi prendere dal panico.
«Respira», disse suo zio dopo un tempo che parve interminabile e Nino riprese a respirare affannosamente, come per recuperare il fiato perduto.
«Perdonami nipote, ma ne avevi bisogno». Il volto di Mimmo era serio e contrito.
«Perdonami tu» , disse Nino quando gli parve di poter parlare senza boccheggiare, «continua pure, zio».
Adesso iniziava a capire la paura che suo padre aveva di quell'uomo. Se poteva soffocare una persona soltanto proferendo una parola, cos'altro era in grado di fare?
Dopo qualche istante, Mimmo riprese a parlare:
«Ti sarai chiesto da cosa deriva il tuo potere di vedere brandelli di futuro, no? Ti sarai chiesto almeno una volta come fa tua sorella a mandarti visioni di ciò che accadrà proprio quando ti serve. Questo avviene perché stiamo vivendo un paradosso. Sašarov, lo sciamano creato dal nostro antenato, in gioventù viaggiò verso la Sicilia e mise incinta una giovane donna. Questa giovane donna era la bisnonna di mio nonno Antonino. Antonino stesso era un discendente della sua creatura, così come lo siamo noi».
«È assurdo» interloquì Nino con poca convinzione.
«Lo è, ma è anche la Verità. Durante la cerimonia di nozze, conosciuta come “Le Nozze d'Inverno”, celebrata da Sašarov e dalla sacerdotessa, il mondo fu cambiato e gli equilibri mutarono. Il mondo come lo conosciamo adesso è frutto di quella cerimonia. I miei poteri derivano da Sašarov, così come i vostri».
Nino era sconvolto. Come poteva essere? Il suo potere di “vedere” il futuro tramite gli occhi di sua sorella era un fatto assodato. Più volte, da bambini, gli aveva evitato rimproveri da suo padre. Da quando aveva ucciso il suo primo uomo, le visioni di ciò che sarebbe accaduto gli avevano salvato la vita diverse volte, durante gli scontri con i pazzi della Città Bassa.
Non poteva negare il suo potere.
«Cosa devo fare?», chiese Nino spaventato. Si era sentito pronto a ricevere delle spiegazioni, ma nulla gli aveva fatto presagire una cosa del genere. «Cosa significa tutto ciò? Non pensavo di vivere in un mondo tanto assurdo. Sapevo che doveva esserci qualcosa di strano, ma non lo immaginavo così».
Mimmo gli mise una mano sulla spalla.
«Devi allontanarti ancora. Il tuo Potere ha un solo punto debole, tua sorella. Sašarov aveva dei nemici potenti, nemici che adesso cercano la sua stirpe per eliminarla, poiché Egli è irraggiungibile. Tuttavia, se elimineranno i suoi discendenti acquisiranno abbastanza forza da essere in grado di colpirlo lì dove si trova. Questo significa che tua sorella è in pericolo. Devi andare lontano per evitare che i nostri nemici la colpiscano. Se le stai vicino, la metterai in pericolo. Se te ne allontani, sarai tu in pericolo, ma avrai il conforto delle visioni che ti invierà e potrai sfruttarle per difenderti. Purtroppo non so dirti se il Potere rimarrà intatto con la lontananza, ma devi rischiare».
«Tu non corri alcun rischio?», chiese Nino.
«No, finché rimango qui. In questo luogo non mi possono toccare, perché ne sono il Custode e i miei Poteri sono legati a questo luogo».
«Come andrò via? Impiegherò un'eternità di tempo ad allontanarmi a piedi e dovrò comunque passare dalla Città Alta, perché verso la Città Grande non si può andare».
«È vero. La Città Grande è preclusa a noi Esterni, ma non ho intenzione di farti andare via a piedi».
«E come?».
«Esistono delle Porte, Nino, delle Porte che conducono in luoghi lontani e che io sono in grado di aprire».

Era la prima volta che vedeva da vicino le tre donne. Sapeva che erano in casa, le aveva intraviste negli ultimi giorni, da quando cioè aveva avuto il permesso di muoversi liberamente per la tenuta.
Erano bellissime. Si somigliavano come delle gocce d'acqua, ma differivano per il colore dei loro capelli: una era mora, un'altra bionda e una rossa. Per il resto erano identiche.
Non parlavano, ma assistevano al rito dondolandosi lateralmente e mugugnando chissà quale strana litania.
Si trovavano nel piccolo giardino interno della casa, davanti a una grande roccia calcarea. Alcune piante crescevano dal terreno brullo, piante di una bellezza ancestrale e selvaggia.
Mimmo gli aveva spiegato che, una volta aperta, la Porta lo sarebbe rimasta per pochi secondi e non avrebbe dovuto esitare a entrarci, una volta che fosse stata libera.
«Cosa intendi per “libera”?», chiese Nino.
«Lo capirai», rispose lo zio.
Non capiva le parole della canzone che suo zio stava cantando, ma si rendeva conto che le  avrebbe ricordate per sempre.
«Cthulhu Ftangh! Ia! Shab ftor Nyarl! Ia! Ia! Yugh Shub Nigghttuf!»
Gli penetrarono nel cervello e lo stordirono.
Una noce vermiglia comparve improvvisamente sulla roccia e lentamente si avvolse a spirale su sé stessa, aumentando contemporaneamente di dimensioni. Prese a ruotare sempre più velocemente e in breve cambiò colore e si ingrandì fino a sfiorare la sommità della roccia, cinque metri più in alto.
Divenne viola, poi nera e, infine, assunse un colore azzurro sbiadito. Era come trovarsi davanti a uno specchio di acqua limpida, infatti prese a incresparsi come le onde del mare, mentre i suoi contorni si stabilizzavano e diventavano dorati.
La Porta era aperta e ne uscì un mostro orripilante: un'enorme bocca dotata di denti affilati come rasoi, venti occhi di fuoco sormontavano delle appendici vorticanti, corna possenti, un ventre che ribolliva distorcendosi e numerose braccia contorte dotate di artigli uncinati.
Accadde tutto molto velocemente.
Il mostro si avventò contro Mimmo, ma le donne, incredibilmente tramutatesi in mostri dotati di denti e artigli lo attaccarono ai fianchi e frontalmente.
La lotta fu cruenta.
Nino udì suo zio gridargli:
«IL SIGILLO È SPEZZATO! CORRI, NIPOTE, CORRI!»
Nino si lanciò in una corsa disperata, cercando di evitare i colpi del mostro. Si tuffò a testa in avanti dentro la porta dandosi del pazzo.
Atterrò sulla neve soffice rotolando e sguainando la spada. La doppietta nell'atterraggio gli colpì un ginocchio e una bretella dello zaino si ruppe, facendoglielo scivolare dal braccio sinistro.
Si girò più volte, ma non vide traccia né della porta, né tanto meno del mostro.
Era in una valle innevata, circondata da immense montagne. Un fiume ghiacciato “correva” a poche decine di passi da lui.
Mettiamoci in cammino”, pensò, e si incamminò seguendo il corso del fiume verso il fondovalle.

lunedì 12 dicembre 2011

Eekah - terza parte


Finalmente avevano modo di parlare con gli altri, anche se non molti avevano la forza o il coraggio necessario a raccontare la loro storia. Erano quasi tutti terrorizzati dall'acqua e dalle Lucertole Tonanti, anche se queste ultime stavano tranquille, coccolate dagli attendenti dei cavalieri.
Nonostante tutto, Grjusuk era riuscito ad addormentarsi, forse a causa dello sfinimento.
Eekah riuscì a entrare in confidenza con un guerriero dalle lunghe corna ricurve, raccontandogli la loro avventura sul fiume, fino alla cattura.
«Quali sono i vostri nomi?», chiese il guerriero.
«Mi chiamo Eekah e il mio compagno è Grjusuk, della tribù di Naetleoz».
«Io sono Sathûke della tribù di Atnoonar. È un piacere conoscere due giovani coraggiosi, anche se le circostanze non sono le migliori. Cosa ci facevate così lontani dalle vostre terre?».
Eekah aveva pensato che sarebbe riuscito a controllare la piega della conversazione, ma il senso di autorità che emanava Sathûke lo costrinse a ricredersi:
«Avevo notato già da tempo che tagliavano gli alberi di Belÿanoth... immagino che anche voi ci costruiate sopra le vostre case come facciamo noi. Volevo metterne il Consiglio a conoscenza, ma avevo bisogno di un testimone, per questo col mio amico ci siamo messi in cammino e adesso eccoci qui. Tu sai perché tagliano gli alberi?».
«È a causa di ciò che la mia tribù e quella di Atuvat sono in guerra con gli Uomini Neri da molti anni, ormai. Ci hanno cacciati sempre più indietro e molti di noi sono stati catturati. Anche mio figlio è stato preso. Pensiamo che tagliano gli alberi di Belÿanoth perché sono più resistenti degli altri al fuoco»
«Continuo a non capire a cosa gli servono».
«Si dice che siano in guerra con un popolo del lontano ovest, Uomini Bianchi che vanno per il mare con navi sputa-fuoco. Probabilmente stanno iniziando a costruire navi col il legno del Belÿanoth, sperando così di vincere la guerra».
Eekah era stupito. Non aveva mai sentito parlare di Uomini Bianchi e di navi sputa-fuoco. Certo, quello che Sathûke stava dicendo aveva senso, ma quali erano i programmi per loro?
«Cosa pensi che faranno di noi?»
«Non lo so, ragazzo, temo comunque che lo scopriremo più presto di quanto non ci faccia piacere».
Il viaggio fu lungo e monotono. Gli attendenti dei cavalieri pescavano dal fiume grandi pesci argentati che davano in pasto alle Lucertole Tonanti crudi, i rimanenti, cotti, andavano ai prigionieri.
Nel complesso i tredici krèmoni furono trattati molto meglio che nel viaggio via terra. Erano sempre legati mani superiori e inferiori, tuttavia il cibo era migliore e potevano bere quando ne avevano voglia, non avevano che da chiedere.
Eekah scoprì che i due cavalieri parlavano una lingua diversa dai precedenti carcerieri e riusciva addirittura a comprendere qualche parola qua e là, legata per lo più alla natura e agli animali: “Albèrro” era “albero”, “Nash Tolonuk” era “Lucertola Tonante” e “flüm” era “fiume”, per fare degli esempi. Si stupiva di ciò, e quando ne parlò a Sathûk questi non seppe spiegargliene la ragione.
Dopo tre giorni di navigazione Eekah aveva stretto amicizia con tutti i prigionieri. I due cavalieri li avevano totalmente ignorati, gli attendenti li avevano controllati molto blandamente e i barcaioli si erano occupati solo della navigazione.
Alla sera del quinto giorno, giunsero a un'ansa del grande fiume e il pilota fece accostare la chiatta a un piccolo molo.
Gli attendenti li legarono per il collo uno dietro l'altro, liberarono le mani inferiori e li condussero fuori dalla barca. Furono trasferiti su dei carri scoperti e scortati dai cavalieri per un lungo cammino attraverso campi coltivati e frutteti, fattorie e pascoli.
Non si fermarono neanche durante la notte. La grande Tarij brillava alta nel cielo e illuminava il terreno quasi come nei giorni di mezzo-sole.
Poco dopo l'alba giunsero in vista di quella che Eekah giudicò essere una città degli Umani. Da un'alta collina la si poteva osservare tutta: circondata da alte e possenti mura, era piena di edifici in pietra, da molti dei quali si levavano sottili fili di fumo. Era circondata da un fossato che riceveva acqua dal fiume che scorreva a fianco della città. Ciò che vide non gli piacque affatto: era troppo distante dai canoni di bellezza con i quali era abituato a giudicare le cose e i luoghi.
Quando furono a circa un chilometro dalla porta, furono colpiti dall'odore pungente della città stessa come da un pugno allo stomaco, che mozzò loro il respiro e fece stare male persino i più robusti.
Grjusuk, che era stato particolarmente male durante il viaggio sulla chiatta e non era riuscito a digerire il pesce, si era un po' ripreso durante il viaggio a terra, ma non riuscì a reggere a quell'odore e vomitò il poco che aveva nello stomaco. Così come lui molti ragazzi vomitarono violentemente, qualcuno arrivò persino a sputare sangue.
Entrarono in città attraverso un cancello di ferro ed Eekah ebbe confermata la prima impressione: tutti gli edifici di quel luogo infernale erano di pietra.
Furono condotti in una grande stanza, dove poterono riposare su delle panche di legno e dove fu servito il pranzo: latte, pane, uova e formaggio. Un pasto eccezionale, considerando quello che avevano passato durante l'ultima settimana.
I loro carcerieri furono alquanto gentili. Dopo che tutti ebbero finito di mangiare li condussero uno ad uno in una piccola stanza ove venivano liberati dalle catene, per poi essere portati in un grande ambiente buio.
L'unica luce entrava da delle piccole finestre poste troppo in alto per guardarvi fuori.
Erano confusi, non sapevano che pensare. Molti iniziarono a innervosirsi e pestare pugni alle pareti, ma improvvisamente una delle pareti si alzò, lasciando loro una possibilità di fuga!
Molti si precipitarono fuori dalla stanza, ma Sathûke trattenne Eekahe Grjusuk, uscendo con loro più lentamente: chiaramente non si fidava dei suoi carcerieri.
Appena fuori dalla stanza, la porta si richiuse alle loro spalle e si resero conto di dove si trovavano e del motivo per cui erano stati portati fin lì: erano in una grande arena, con migliaia di Umani che osservavano il macello che stava per avervi luogo.
Tredici krèmoni stanchi e demoralizzati avrebbero dovuto affrontare mezza dozzina di bestie feroci, evidentemente molto affamate, che entravano da altrettante porte dell'arena circolare.

domenica 4 dicembre 2011

Eekah - seconda parte


Si svegliò lentamente, come se non volesse rendersi conto della situazione in cui si trovava. Era sdraiato su un fianco, con le mani legate da manette di ferro. Neppure l'istinto del tempo della sua specie riuscì a fargli comprendere quanto a lungo era rimasto privo di conoscenza. Fitte di dolore lo percorrevano dappertutto a ogni tentativo di muoversi. Si rese conto di essere in un carro: il rumore delle ruote, gli scossoni causati dalla strada.
Appena i suoi occhi si furono abituato all'oscurità, scorse vicino a sé una sagoma familiare. Doveva essere Grjusuk: in che guaio si erano cacciati?
«Grjusuk, amico, sei sveglio? Grjusuk!».
«Uh... si, sono sveglio adesso. Non riesco a muovermi. Dove siamo?».
«Siamo legati e siamo dentro un carro».
«Dove ci portano?».
«Non lo so. Mi sono svegliato adesso anch'io».
Erano legati in modo da non poter cambiare posizione e gli scossoni del carro non facevano che acuire le loro sofferenze.
A un tratto il carro rallentò e si fermò. Eekah cacolò che erano passate circa tre ore da quando si erano svegliati e il brontolio del suo stomaco gli fece supporre che doveva essere circa la seta o la settima ora.
Circa mezz'ora dopo la porta del carro si aprì e la luce che entrò ferì i loro occhi. Entrarono tre uomini armati che slegarono le loro mani superiori, non smettendo di minacciarli con le loro lance. Entrò poi un quarto uomo, che diede loro due scodelle e due cucchiai di legno. Nelle scodelle versò ciò che rimaneva del contenuto di una marmitta, ma l'odore nauseabondo che emanava fece loro rifiutare il cibo. Gli uomini urlarono loro contro e li percossero con le basi delle lance, ma nessuno dei due, nonostante la fame, fu capace di assaggiare quella sbobba.
Con due calci, uno degli uomini rovesciò loro addosso il contenuto delle scodelle, poi furono nuovamente legati e rinchiusi.
«Cosa ci faranno Eekah?», chiese sconsolato Grjusuk.
«Ti ripeto che non lo so! Non fare domande idiote!».
Si pentì subito della sua reazione. Non riusciva a vedere il volto del suo amico al buio, ma si rese conto che le sue parole lo avevano ferito.
«Ascolta, Grjusuk... perdonami. Sono io che ti ho trascinato in questo guaio. È solo che sono anch'io molto nervoso e preoccupato per ciò che ci attende alla fine di questo viaggio».
«No, Eekah. È colpa della mia goffaggine se siamo stati catturati. Pensi che qualcuno verrà a cercarci?»
«Suppongo di si, ma temo che perderanno le nostre tracce arrivati al fiume. Da lì non credo che qualcuno riuscirà a capire cosa abbiamo fatto e di certo non attraverseranno l'acqua».
«Cosa era quello schifo che ci hanno portato da mangiare?».
«Odorava di carne andata a male e c'erano state senz'altro delle verdure dentro. Lo avrei vomitato ancor prima di ingoiarlo».
«Già, anch'io», risero.
Il carro si rimise in movimento per fermarsi cinque ore dopo. Aprirono la porta e fuori era buio. Entrarono i soliti tre uomini armati, ma stavolta slegarono loro le mani inferiori e li costrinsero a scendere dal carro. Misero loro dei collari di ferro con i quali li legarono a un palo lungo circa due metri, poi li spinsero vicino a un fuoco.
Solo allora i due amici si resero conto che facevano parte di una carovana. Altri krèmoni erano stati catturati, ne contarono almeno venti, tutti legati a dei pali, tutti pesti e sanguinanti. Alcuni uomini armati di frusta giravano fra di loro, impedendo a tutti di parlare.
Eekah riconobbe appartenenti alle tribù di Atuvat e di Atnoonar, a giudicare dalla lunghezza delle corna tutti guerrieri adulti e pochi ragazzi appena più giovani di loro. Nessun altro della loro tribù era stato catturato, per fortuna, e non sembravano esserci femmine, altrimenti avrebbero senz'altro sentito le loro urla.
Anche se non avevano molti contatti con gli umani, Eekah, sapeva che i maschi della loro specie si eccitavano a dismisura davanti a una krèmone adulta, tanto da non riuscire a contenersi dall'usarle violenza. Adesso non rimpiangeva più di non aver portato Leeksha con sé.
Non riuscì a dormire quella notte e non poté scambiare informazioni con nessuno, poiché gli uomini li sorvegliarono tutta la notte.
All'alba li fecero mettere in marcia, frustandoli di quando in quando e colpendoli coi bastoni delle lance se cadevano e tardavano a rialzarsi.
La marcia di quel giorno fu un incubo. Due ragazzi della tribù di Atuvat, cui erano appena spuntate le corna, avevano delle brutte ferite e morirono durante il cammino. Furono decapitati e lasciati alle bestie, mentre le teste furono lasciate appese al palo.
Attraversarono un lungo tratto di foresta, facendo una confusione tale da far fuggire qualsiasi animale nel raggio di chilometri.
Fecero solo due brevi soste, giusto per lasciare che i prigionieri bevessero un sorso d'acqua a testa. Altri due morirono quel giorno. Eekah e Grjusuk furono gli unici a non lamentarsi mai, forse perchè erano quelli nelle condizioni migliori, ma ciò non risparmiò loro qualche frustata di tanto in tanto.
Era quasi il tramonto quando davanti a loro si parò una grande radura sulla sponda di un placido fiume dal letto molto ampio.
Si accamparono, e ancora una volta gli uomini li tennero distanti gli uni dagli altri e le guardie con le fruste non staccarono loro gli occhi di dosso, mentre altri uomini accendevano due grandi fuochi.
Neanche quella notte Eekah riuscì a dormire. Si chiedeva dove li stavano portando e se avrebbero mai avuto la possibilità di tornare a casa.
Il mattino arrivò con una grande novità. Gli uomini tolsero loro i ceppi dal collo e li condussero sulla riva del fiume. I krèmoni strabuzzarono gli occhi quando videro due grosse Lucertole Tonanti trainare una grande chiatta.
Gli uomini che cavalcavano le enormi bestie erano alti e indossavano uno strano diadema sulla fronte, identico, anche se più piccolo, a quello legato alla testa delle Lucertole Tonanti.
Gli enormi animali si muovevano su quattro zampe e quando si fermarono iniziarono a mangiare avidamente la carne che veniva loro fornita in grossi tocchi dagli assistenti dei cavalieri, mentre altri sganciavano la chiatta.
I due cavalieri andarono a parlare con quello che sembrava il comandante del gruppo che li aveva condotti lì. Eekah notò uno scambio di denaro e i prigionieri furono fatti salire sulla chiatta insieme alle Lucertole Tonanti.
Dopo un'ora circa iniziarono a discendere il fiume.

Sul racconto "Eekah"

Quando ho iniziato a scriverlo non sapevo ancora dove sarei andato a parare e ancora adessso, che ho terminato la seconda parte, non so come finirà.
Sono certò però che la strada che ho intrapreso non terminerà tanto presto, probabilmente si tratterà di qualcosa di piuttosto lungo.
Krèmone maschio adulto
Spero che saranno in molti a volermi seguire e spero di riuscire ad appassionare qualcuno!

lunedì 28 novembre 2011

Sotto la Torre Normanna

Porgo un saluto caloroso a chiunque stia per leggere di questa mia strana avventura. Prego vorrete perdonarmi una doverosa premessa: non sono una persona impressionabile, né ho una fervida immaginazione. Ho cinquanta anni e di mestiere faccio il mercante di lana: il mio modo di essere mi porta a interessarmi alle cose pratiche piuttosto che alle elucubrazioni mentali. Di me dicono che sono pragmatico e calcolatore e che non riuscirei ad immaginare niente di diverso da ciò che ho davanti ai miei occhi. Non sono molto religioso, perché, come già detto, la mia mente si preoccupa d'altro. Diciamo che la domenica vado in chiesa a pregare per non far parlare di me, come del resto fanno quasi tutti i miei concittadini.
Mi chiamo Totò Guadamonte e quel fatidico giorno guidavo il mio carro verso la piana di Termini, poiché avevo da vendere certe coperte di lana alla fiera annuale che si teneva al porto. Non ero da solo, ma a difendermi c’erano i due fratelli Martorana a cavallo. Come al solito non portavo con me neanche un bastone, perché non ero uso a farlo, mentre i due Martorana avevano un fucile ciascuno e Peppe, il più grande, aveva anche un revolver.
Faceva caldo e non soffiava nemmeno un alito di vento. Avevamo superato Altavilla Milicia da circa dieci minuti ed era arrivato mezzogiorno: ai fratelli venne fame e ci fermammo a pranzare sotto un noce, al fresco. I Martorana mangiarono pane e formaggio, mentre io con me avevo del pane, delle cipolle e un paio di mele. Bevemmo un litro di vino bianco che avevo nel pozzetto del ghiaccio e riposammo per circa mezz’ora, prima di ripartire, verso la una.
I due Martorana fecero mangiare ai cavalli un po’ frumento, invece io non diedi nulla al bue che tirava il carro e nemmeno lo slegai: nonostante fossi partito presto la mattina eravamo ancora lontani e il carro pieno ci faceva andare fin troppo piano.
Circa quindici minuti dopo essere ripartiti, arrivammo su un colle dal quale di intravedeva la Torre Normanna a circa un chilometro a volo d'uccello. Non l’avevo mai vista così da vicino e neanche i due Martorana vi si erano avvicinati tanto. Tuttavia, conoscevano l’esistenza di una stradina che vi passava sotto lato monte e sapevano che era disabitata da secoli.
L’antica strada che stavamo percorrendo era piena di alberi e cespugli che rendevano difficile il viaggio, dunque procedevamo a rilento.
Poco prima delle due del pomeriggio, arrivammo sotto la torre e ci trovammo davanti una sorpresa: un uomo di circa quaranta anni, rosso di capelli e con una lunga barba fluente, alto più di un metro e novanta e dal torace ampio come quello di un cavallo, era fermo in mezzo alla strada sotto la torre appoggiato a una mazza di legno lunga almeno un metro e cinquanta.
“Salute a voi” disse.
“Buongiorno a lei” risposi. I Martorana lo guardarono sottecchi e non salutarono. L’uomo li fissò per un istante in malo modo, ma non disse loro nulla. Spostando lo sguardo su di me, disse:
“Chiunque passi da qui, deve pagare un pedaggio”. Il suo volto tranquillo emanava una strana ilarità.
“Non sapevo niente del pedaggio! Non ho soldi con me” risposi d'istinto.
L’uomo, senza mutare espressione, mi guardò, poi spostò lo sguardo sui due fratelli, prima su Sasà, il più piccolo, poi Peppe. I due non erano per niente tranquilli e avvertivo chiaramente il nervosismo dei loro cavalli. L’uomo disse:
“In pagamento mi basta uno dei vostri cavalli”.
“Cosa?” disse Sasà indispettito “Sei pazzo, vecchio? Non ci passa neanche per la minchia di darti un cavallo!” continuò, e armò il cane del fucile.
Io diventavo sempre più nervoso, mentre Peppe, dando man forte al fratello, disse:
“Proprio così. Spiegaci perché siamo noi che dobbiamo pagare il pedaggio? Noi siamo pagati per accompagnare il carro del nostro amico, qui” e puntò la lupara nella mia direzione. Io intuii che non era male intenzionato nei miei confronti e, per calmare gli animi, dissi rivolgendomi all’uomo:
“Mi ascolti! I miei amici hanno ragione! Perché dovrebbero pagare loro per le merci che porto io? Se proprio vuole un pagamento, prenda qualcosa dal mio carro!”
Guardandomi con un’espressione divertita, come non fosse uso a sentire parlare così tanto, mi rispose:
“Non mi servono le tue coperte. Io sono il Custode del Confine e sono io a stabilire cosa si debba pagare per passare al di là”. Osservò in tralice i Martorana: “Oggi ho deciso che voglio i due cavalli in pagamento e non uno soltanto” concluse.
“Cosa!?” dissi, chiedendomi come facesse a sapere che avevo delle coperte sul carro, ma non feci in tempo a dire altro, perché l’urlo di Sasà coprì la mia voce:
“Tu sei uscito pazzo!” disse mentre alzava il fucile pronto a sparare.
Non fece in tempo.
Muovendosi ad una velocità impressionante, l’uomo saltò alla sinistra di Sasà colpendolo alla nuca col grosso bastone. Riparato dal corpo di Sasà che cadeva da cavallo, gli prese il fucile dalle mani e sparò a Peppe colpendolo alla testa, mentre questo stava ancora girandosi per cercare di seguirne il movimento.
Rimasi di stucco! Nessuno poteva muoversi a quella velocità! Ma con chi avevamo a che fare?

“Li hai uccisi! Li hai uccisi come dei cani!” dissi non appena realizzai cosa era successo.
“Adesso ho due cavalli, due fucili e un revolver. Se mi avessero ascoltato, quei due, a quest’ora sarebbero ancora tra i vivi” mi rispose l’uomo. Continuò:
“Il mio nome è Mimmo. Seguimi” si voltò e cominciò a ridiscendere dal promontorio sul quale ci trovavamo, dirigendosi verso est.
Lo spettacolo che mi si parò davanti mi lasciò a bocca aperta. Un grande golfo si apriva sotto i miei occhi, con tanti piccoli promontori che separavano altrettante valli. Piccole spiagge di sabbia si intervallavano a alte scogliere e sullo sfondo, in lontananza, Mimmo mi indicò la linea del castello di Termini, che riposava sotto il Monte San Calogero, il primo di una serie di montagne che si innalzavano maestose e andavano a posarsi dolcemente sul mare.
Mimmo conduceva al passo i cavalli con i cadaveri dei Martorana coricati sopra e io, accorgendomi che non riuscivo più a controllare le mie reazioni, lo seguii conducendo il carro appresso a lui.
Ero terrorizzato. Avevo un terribile presentimento, ma non riuscivo a capacitarmi. Mentre facevamo strada, feci alcune domande a Mimmo:
“Mi tolga una curiosità. Perché voleva proprio i cavalli? E perché ha ucciso i miei amici? Non ce n’era alcun bisogno! Se proprio voleva un cavallo, avrei potuto portarne uno io sulla via del ritorno da Termini!”
Mimmo mi rispose senza neanche girarsi:
“Non saresti mai arrivato a Termini con quei due a farti da scorta. Superata questa zona, c'è Santa Nicola della Tonnara e, se foste stati particolarmente fortunati, vi avrebbero rubato cavalli, bue e coperte. Magari ti lasciavano il carro. Avreste fatto meglio a prendere la strada dei monti, salendo fino a Sant'Onofrio per poi scendere dal fiume San Leonardo.
“Quelle zone non le conosco affatto e non le conoscevano neanche i miei poveri amici”.
“E sareste voluti arrivare a Termini?”.
“Proprio così. Ma, mi dica: come faceva a sapere che trasporto delle coperte? E perché non ha ucciso anche me?”
“Tu mi servi per qualcosa di più importante. Delle tue coperte ho sentito l'odore. Ecco siamo arrivati”.
La discesa era finita e ci trovavamo davanti una casa che dava sul mare.
La casa s'affacciava sulla strada da un lato e sul mare dall'altro. Era circondata da mura bianche ricoperte da vite americana rampicante. Fiori ovunque. Alberi da frutto e non, tappezzavano il terreno attorno alla casa.
Tre donne uscirono dalla porta d'ingresso e mi guardarono simpaticamente. Mimmo disse loro di cominciare a preparare la cena. Mi condusse sotto una tettoia, mi diede una poltrona per sedermi e mi offrì del tabacco.
Caricata la mia pipa, gli chiesi:
“Mimmo, mi tolga una curiosità: per quanto ne so io, non ci sono confini tra Palermo e Termini. A che confine alludeva quando ha detto di essere il guardiano?”
“Come? Non l'hai ancora capito? Ovvio che parlavo del confine della mia proprietà. Qui non si avvicinano i poliziotti, né i soldati, perché qui comando io!”
L'arroganza di quelle parole mi colpì come un maglio e mi sentii troppo intimorito per proseguire la conversazione. Del resto, neanche Mimmo disse più nulla e passammo una mezz'ora in silenzio, prima che le donne ci chiamassero per andare a tavola.
Mangiammo pasta col sugo e le sarde, pesce alla griglia e sarde a beccafico, il tutto innaffiato da un bianco dal gusto raffinato. Per tutta la durata del pasto, le uniche voci che si sentirono furono quelle delle donne. Mimmo mi osservava portare ogni singolo boccone alle labbra e col suo sguardo m'inquietava.
Finito di mangiare, Mimmo mi prese a sé e un triste presentimento si fece strada nella mia mente.
“Vieni con me, Totò, è giunta l'ora”
“L'ora per cosa?” fu la mia istintiva domanda.
“L'ora del sacrificio!”
Mi prese l'angoscia, sapevo che Mimmo era infinitamente più veloce e più forte di me e non tentai nemmeno di fuggire: del resto, circondato da mura, dove speravo di andare?
Mi condusse su uno scoglio al quale si accedeva con una stretta passerella di legno. Mi legò a degli anelli fissi per terra. Mentre lo faceva, mi spiegava il motivo di tutto ciò:
“In questo tratto di terra sono tornati gli antichi dei. Qui non hanno potere né Geova, né Allah. Non ti salverà Gesù, né lo spirito del Buddha consolerà la tua anima. Qui comanda il Dio del mare. Ti sacrifico a lui perché continui a vegliare sulla nostra terra”.
Ero come instupidito, non mi muovevo, non facevo domande. Mimmo andò via e io attesi.
Un ribollire di onde lontano. Il mare, da calmo che era, iniziò ad agitarsi, le onde si fecero alte e iniziarono a frangersi sullo scoglio, riempiendomi di schizzi.
Inebetito fissavo il mare che, ad un trattò, sembrò ritirarsi. Un'onda enorme, come mai ne avevo viste nella mia seppur breve vita, si fece strada. Mi colpì in pieno un minuto dopo e mi trattennero dall'affogare solo le catene che mi legavano i polsi. In compenso fui sballottato avanti e indietro e il mare mi lasciò fradicio e bagnato proprio mentre l'ultimo chiarore del giorno lasciava il cielo.
Osservai sgomento la figura che mi si avvicinò dal mare. Non la vidi fino a che non fu a pochi metri da me: un essere indefinito, una mostruosità che non avevo mai immaginato neanche nei miei sogni peggiori. L'orrore mi travolse mentre il mostro allungava la mano per ghermirmi.
Urlai al contatto con le dita fredde e umide, ancora più fredde delle onde del mare.

Mi svegliai di soprassalto.
Mi ero appisolato appoggiato al noce dove avevamo pranzato. I fratelli Martorana preparavano i cavalli per ripartire. Peppe mi guardò e sorridendo mi disse:
“Totò, non ti volli svegliare prima, dormivi così bene! Però ora di andare è che si fece tardi”.
Mi alzai, ci rimettemmo in cammino. Mi sentivo a disagio: avevo sognato tutto? Vedemmo la torre, percorrendo il chilometro che ci separava da essa in silenzio. Giunti alla base della torre, un uomo, rosso di capelli con un grosso bastone in mano, ci fece segno di fermarci e disse, sorridendomi in maniera preoccupante:
“Buongiorno a voi, viaggiatori: per passare da qui, dovete pagare un pedaggio!”